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Cosi si chiede Paolo Rumiz, nel bel mezzo di un viaggio alla scoperta della montagna italiana, prima le Alpi da un capo all'altro, poi gli Appennini fino all'estrema propaggine meridionale. Curva dopo curva, su strade secondarie, fili sottili e tortuosi sulle mappe degli automobilisti, che quasi sempre prediligono la linea retta, assecondata da viadotti e gallerie. Strade dimenticate, strade che solo di tanto in tanto tocca imboccare, per una deviazione obbligata, perché non se ne può fare a meno.
Sostiene Paolo Rumiz, che in quel viaggio si è concesso il piacere estremo di partire e arrivare in fondo con una vecchia Topolino, che è proprio questo ciò che vale, il tempo che sembra perso e invece si guadagna, la sorpresa annidata dietro ogni tornante. A volte, afferma, neanche troppo lontano dalle linee rette con cui abbiamo preteso di soggiogare le montagne. I posti più misteriosi, afferma, stanno spesso accanto alle grandi strade, totalmente ignorati dal flusso che li percorre. Ed è un po' come per i ladri, che si dice rubino meglio vicino alle questure.
Solo qualche mese fa, con colpevole ritardo, ho letto La leggenda dei monti naviganti. A mio parere uno dei libri più belli di Rumiz. Dopo averlo finito l'ho messo via, su uno scaffale, con un pizzico di gratitudine misto a invidia: quel viaggio non era il mio viaggio.
Poi pochi giorni fa sono partito per un trekking con i miei amici. La via alta della Liguria, montagna con vista mare. A poche centinaia di metri in linea d'aria Portovenere, le Cinque Terre, alcuni dei luoghi più amati, conosciuti, frequentati da turisti di ogni paese. Poco più sopra, bellezza rarefatta, accarezzata dal silenzio. E solo così ho inteso davvero quel libro.
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