Preferisco un altro Manifesto

Creato il 08 gennaio 2013 da Lucas

Alessandro Giglioli riporta, senza indicazioni bibliografiche, un testo di Ervin László, sostenendo, in calce tra parentesi al suo post, che se un giorno anch'egli dovesse candidarsi a qualche elezione (uno più uno meno di giornalisti, in fondo, che differenza fa?), tali parole del filosofo e pianista ungherese sarebbero il suo manifesto. Le riporto anch'io, con qualche notazione marginale messa in calce, ma non tra parentesi, ad ogni paragrafo del testo:
«La sostenibilità non è un concetto astratto, è qualcosa che sta prendendo forma nella nostra coscienza. È come se un gigantesco puzzle si stesse ricomponendo. E il cambiamento non è un’opzione, è una necessità.»
Quanto sia vero che la sostenibilità (ambientale e non) non sia più un concetto astratto, lo dimostra la difficoltà permanente, a livello globale, di trovare un accordo per una riduzione efficace delle emissioni di anidride carbonica e il puzzle, più che ricomporsi, va sciogliendosi: quello Artico, beninteso.
«Il primo passo è la comprensione, il secondo è la consapevolezza che dobbiamo ripartire da noi stessi. È l’individuo che deve essere sostenibile. Non deve consumare energie non rinnovabili, per quanto possibile, non deve sfruttare o buttar via in maniera indiscriminata.»
Sono d'accordo sul partire da “da noi stessi”, fatta salva la comprensione e la consapevolezza (sì, ma quali? Vedremo poi). Io è da mo' che faccio la raccolta differenziata, riciclo vetro, plastica, metallo, materiale elettronico, carta, umido, tessuto. I pannelli solari per l'acqua calda li avevo, ma si sono rotti e ora non ce l'ho quelle quattro-cinquemila euro per rischiantarli sul tetto dei nuovi, ma appena posso sì, è bello sciacquarsi i genitali con l'energia solare. Insomma: io, non per presunzione, ma il primo passo l'ho fatto. E allora?
«Per molto tempo abbiamo seguito i criteri dell’economia classica, ora bisogna cambiare prospettiva e dire che è il contrario. Ci sono una serie di affermazioni sbagliate a cui abbiamo sempre creduto. Ad esempio, “ognuno persegue giustamente il proprio interesse”, “il fine giustifica i mezzi”, “solo i più forti sopravvivono”, “più soldi hai migliore sei”. Ora dobbiamo cambiare visione. Passare a un pensiero dove l’essere umano è integrato e non dominante. Sette miliardi di persone devono sopravvivere e svilupparsi: ed è possibile solo in armonia
Non capisco bene la prima frase: significa forse che, per cambiare prospettiva, occorre che sia l'economia classica a seguire noi umani? E se sì, come può avvenire tale inversione? Smettendo di credere (dare man forte mentale) a quei cliché sopra elencati? Come si fanno a integrare sette miliardi di persone solo con l'armonia?
«E non è altruismo: è convenienza. Perché il benessere dell’altro è sempre più il mio. E la mia responsabilità si estende a tutti quelli che sono toccati dalle mie azioni. Insomma, questo momento storico è affascinante ed eccitante. Sono molto contento di essere vivo adesso»
Non ho niente contro l'utilitarismo. Tuttavia, sostenere che «la mia responsabilità si estende a tutti quelli che sono toccati dalle mie azioni», senza specificare la differenza tra coloro il cui agire tocca migliaia o milioni o miliardi di persone e coloro che, invece, riescono a malapena a toccare i propri familiari e amici, è una sorta di chiamata di correo che trovo particolarmente fastidiosa.Attenzione: io non me la prendo coi ricchi, non li mando al diavolo come Vendola (come se qualcuno di loro se ne sbattesse le palle del diavolo). Non sono un pauperista. Non credo che si ottenga molto a supertassare i supericchi. Non è tanto l'andare a caccia di quello che hanno, ma di quello che fanno, ovvero di come essi producono la loro ricchezza. I vari Depardieu del mondo... non sono loro il problema. Depardieu ha fatto i soldi non sfruttando il lavoro altrui (almeno credo), ma se stesso, il suo talento, la sua capacità. È chi ha i mezzi (di produzione) per sfruttare il lavoro altrui che fotte l'umanità, e finché nei fottuti non arriverà questa consapevolezza le cose del mondo resteranno tali, sostenibilità ambientale o meno. O perché non ho sentito ancor nessun candidato mettere in discussione - e radicalmente - il sistema di come la ricchezza del mondo viene prodotta e in quali mani, giocoforza, va a finire? Un conto è che sia ricco un attore, uno sportivo, un medico, uno scienziato, un filosofo, un musicista, un astronauta, un informatico, un politico (sì, anche un politico, se fa bene il suo mestiere, secondo me è giusto che riceva un cospicuo stipendio), perché mediante lo studio, il tirocinio, il lavoro e il lavoro, riescono ad eccellere e a contribuire allo sviluppo globale dell'umanità, nei loro settori di appartenenza. Un conto è, invece, fare i soldi appropriandosi del plusvalore che si determinata nel disporre, «nella società di mercato, del potere sociale di comandare la forza-lavoro, e con essa della possibilità di appropriarsi dei prodotti del lavoro [*]». Ecco perché, caro Giglioli, quello di Ervin László non mi sembra un buon manifesto politico; o, meglio, potrebbe anche esserlo, però mi sembra quello di un buon reazionario e conservatore che vede scorrere la sofferenza del mondo sotto i suoi piedi e che dichiara, beatamente, di essere molto contento di essere qui (come dice anche uno dei nipoti di Paperone**).*Per favore, qualcuno mi calcola quanto di una merce, per esempio: una Fiat 500 da quindicimila euro, quanto plusvalore viene sottratto e finisce nelle mani della “proprietà”?** Battuta vecchia, rubata dal primo libro delle Formiche (che nel loro piccolo s'incazzavano).

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