Magazine Cultura
di Paola Mancini
La popolazione, come in tutta la Sardegna, abitava in villaggi di capanne, a pianta generalmente circolare e a doppio paramento murario legato con malta di fango e zeppe, e riempito internamente a sacco con terra e pietre. Il tetto era costituito da un’intelaiatura per lo più conica di grossi pali appoggiati sullo zoccolo murario o conficcati nel piano di calpestio in terra battuta o lastricato con pietre piatte. Talvolta le capanne esulano da questo schema costruttivo, in quanto, così come i nuraghi, inglobano nella loro muratura le rocce granitiche affioranti.
Queste ultime, a volte sagomate e riadattate, hanno condizionato l’andamento della struttura determinando forme spesso singolari e non perfettamente simmetriche, e quindi sistemi di copertura particolari. Una evidente testimonianza è costituita dal villaggio di Lu Brandali a Santa Teresa Gallura, in cui uno degli ambienti, doveva avere un tetto a unica falda, in quanto lo sperone roccioso inserito nella muratura raggiunge un’altezza tale da impedire qualunque altra possibile copertura.
È una costante, nel territorio gallurese così come in tutti quelli in cui domina il paesaggio granitico, la convivenza, nell’ambito dello stesso insediamento, di strutture circolari in muratura e ripari sotto roccia.
Le genti nuragiche galluresi seppellivano i loro defunti, come consuetudine in tutta l’Isola, nelle tombe di giganti; insieme a queste però utilizzavano anche i tafoni. I due tipi di sepoltura sono stati usati contemporaneamente e non si hanno elementi sufficienti per comprendere se la scelta dell’uno, o dell’altro tipo, dipendesse da presupposti di censo o di nascita.
Le tombe di giganti maggiormente rappresentate sono quelle cosiddette ortostatiche per la presenza di grandi lastroni infissi a coltello sia nell’esedra sia nel corridoio destinato ad accogliere le sepolture. Le più note, soprattutto per le dimensioni ragguardevoli e per la maestosità fornita loro dalla stele centinata posta al centro della facciata, sono quelle di Li Lolghi e Coddu Ecchju ad Arzachena, Su Monte ‘e s’Abe a Olbia e Li Mizani a Palau. Quest’ultima, tra l’altro, con quella di Pascaredda a Calangianus, sono le uniche ad aver conservato la stele eretta nella posizione in cui era stata collocata al momento del suo impianto. Oltre le tombe ortostatiche, le più antiche, sono presenti anche quelle realizzate non più con lastroni infissi ma con filari di pietre più o meno lavorate, come quelle di Lu Brandali e La Testa a Santa Teresa Gallura. Per quanto riguarda le tombe di giganti più recenti che presentano al centro della facciata un monolito trapezoidale con tre cavità verticali scolpite, noto come fregio a dentelli, non ci sono chiare attestazioni in Gallura. Un solo elemento con fregio a dentelli è stato rinvenuto nelle immediate vicinanze di una struttura muraria a filari ad andamento semicircolare nella zona di S’Ajacciu d’Inghjò a Palau.
Sebbene il monumento sia noto in letteratura come tomba di giganti, mancando l’elemento principale di una tomba, la camera sepolcrale, si può ipotizzare, in alternativa, che si tratti di un’esedra cerimoniale priva, sin dall’origine, della parte destinata alle sepolture. Nella parte posteriore, ma non a ridosso della struttura, sono presenti strutture murarie realizzate in età alto-medievale, ma non sembra sia da imputarsi a questo successivo utilizzo dell’area l’eventuale smantellamento della tomba, anche perché la pendenza del livello naturale del terreno nella parte posteriore dell’esedra è talmente marcata da essere poco adatta ad accogliere il corpo principale di un’eventuale tomba.
Concludo questa veloce carrellata sui monumenti preistorici e protostorici della Gallura con un accenno ai pozzi sacri e ai tempietti in antis o a megaron. I pozzi sacri, di cui forniscono testimonianza quelli di Sa Testa a Olbia e, anche se parzialmente mutilato, di Milis a Golfo Aranci, sono sempre lontani dagli abitati, isolati e privi di strutture di protezione. Si tratta quindi di luoghi destinati all’incontro di diverse comunità che non avevano, quindi, necessità di essere protetti, probabilmente anche in virtù della loro funzione sacrale che li rendeva naturalmente sicuri. La loro ubicazione molto prossima alle coste suggerisce un utilizzo che poteva comprendere l’ospitalità verso chi arrivava dal mare.
I tempietti si trovano, invece, sempre su imponenti alture granitiche che dominano vaste estensioni di territorio e sono in associazione con capanne, tafoni e, come nel caso del complesso ubicato sulle cime di Monti Canu a Palau, anche con una fonte sacra. I più celebri sono quelli di Malchittu ad Arzachena e Sos Nurattolos ad Alà dei Sardi, anche in quest’ultimo caso in associazione con una fonte sacra.
Voglio terminare questo veloce excursus sulla Gallura preistorica con la considerazione, rafforzata in questi anni di ricerca sul territorio, che ogni buon studio di archeologia del territorio deve essere ancorato alla visione autoptica dei beni e del contesto in cui sono inseriti, volgendo sempre uno sguardo alle altre realtà territoriali. In questo modo spesso siamo spinti a rivalutare posizioni e idee date per consolidate e a comprendere che, in preistoria, l’ipotesi è, in mancanza di prove certe, da preferire alla tesi.
Numerose, infatti, sono le domande e altrettante le certezze troppo relative che sono affidate alle conferme o alle confutazioni proprie delle dinamiche della ricerca.
Mi piace concludere con una felice espressione di Giovanni Lilliu che, in un suo articolo del 1948 (D’un candelabro paleosardo del Museo di Cagliari, in Studi Sardi, VIII, Sassari, pp.35 – 42), trattando proprio della cultura gallurese scriveva: “Non è da escludersi che lo sviluppo delle ricerche può portare nuovi documenti, tali da mutare, parzialmente o totalmente, ipotesi e affermazioni fatte. Non meglio ad altre discipline che alla preistoria si adatta, infatti, la dialettica del movimento, segno di vita”.
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Questo articolo è tratto dalla relazione dell'autrice al convegno di Barumini del 7 Novembre 2010, nell'ambito della rassegna "Viaggi e Letture".
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