Viaggio può voler dire molte cose. Si potrebbe scrivere un intero blog su ciò che per ognuno di noi significa viaggiare: per me, viaggio significa semplicemente esplorazione. Esplorazione di luoghi mai visti, di culture mai conosciute o di ciò che ancora non conosciamo, anche fosse dietro casa. Per questo, credo che il viaggio migliore non solo ci debba condurre verso luoghi, fisici e non, dove non siamo mai stati, ma soprattutto verso luoghi che non conosciamo e da cui non sappiamo cosa aspettarci. La Penisola Balcanica è uno di questi.
In collaborazione con il Progetto Pace - una rete di scuole e associazioni che si impegnano per promuovere una cultura di solidarietà attraverso progetti di raccolta fondi, convegni e volontariato - ho avuto la possibilità di partecipare all'annuale viaggio interculturale e umanitario on the road nei Balcani, dedicato all'aiuto e al gemellaggio con le popolazioni albanesi e kosovare.
Qui, infatti, gli echi degli spari e delle bombe dovuti ai conflitti che hanno sconvolto la Penisola Balcanica dagli anni Novanta in poi si possono ancora avvertire. L' Albania non ne fu direttamente coinvolta, mentre il Kosovo combatté duramente per ottenere l'indipendenza dalla Serbia, conseguita con un prezzo altissimo in vite umane.
Per comprendere almeno in parte cosa abbia lasciato questa guerra poco conosciuta - nonostante sia avvenuta appena al di là delle nostre spiagge adriatiche - Prekazi, santuario per i patrioti kosovari situato nel cuore del Kosovo, dove la popolazione è quasi totalmente di etnia albanese, è il luogo giusto per iniziare.
Il vento e il temporale che si avvicina tacciono mentre noi camminiamo tra le tombe del cimitero di guerra. Leggiamo che alcuni dei patrioti qui sepolti, quando morirono in guerra a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, avevano sessant'anni, ma altri quaranta, altri venti, e alcuni non avevano nemmeno dieci anni.
È il paradosso perenne di tutte le guerre: i conflitti sono scatenati dai grandi - sia che per grandi si intenda "adulti" sia "grandi potenze" - ma il prezzo più alto finiscono per pagarlo coloro che la guerra non l'hanno voluta, non la combattono e che forse sono ancora troppo giovani per comprendere cosa sia.
Ascoltiamo in silenzio le parole della guida: ci dice che lì, in quella casa diroccata che troneggia nel mezzo della verde valle, abitava la famiglia Jashari, gli eroi nazionali di cui abbiamo appena visitato le tombe, che resistettero a molteplici assedi dell'esercito serbo nei momenti più violenti e spregiudicati di una guerra ignorata fino all'ultimo dal resto d'Europa.
Poi la loro resistenza venne sopraffatta, ma nonostante ciò ai është i gjallë, "egli è ancora vivo" dice un'iscrizione appena sopra una foto di Adem, capo della famiglia degli Jashari e simbolo della resistenza e della lotta per la libertà.
Quello di Prekazi è un simbolo chiaramente pro Albania, in linea con le azioni dell'UCK, il fronte che combatté per l'indipendenza del Kosovo e di cui facevano parte gli Jashari. Ma se per alcuni l'UCK era simbolo della libertà tanto agognata, per altri non è altro che un'associazione armata ai limiti del terrorismo.
Dove sta la verità, ammesso ve ne sia una di inequivocabile? Per aiutarci a capirlo, e per comprendere anche l'altro lato del Kosovo, non possiamo far altro che continuare a viaggiare.