di Elena Ludovisi. Immagino che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo ricevuto un pessimo libro in regalo. Lo so, non inizio a parlarne nel migliore dei modi, ma come ha detto un mio amico stasera, «più attacchi, meno salamelecchi!» e anche lui ha ragione.
Avete presente quel genere di libro in cui non troverete mai nulla di utile perché l’autore è troppo impegnato a parlarvi della sua vita? Un po’ come quei petulanti sfoghi degli amici che ci tengono al telefono per ore travolgendoci con le loro considerazioni su persone o fatti di cui non ci siamo mai interessati. Ma soprattutto, avete mai visto un libro con hashtag e tweet? Ok, la faccio finita, sto parlando di “L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore”, l’ultimo lavoro di Michela Marzano.
Non dimenticherò mai il momento in cui mi fu recapitato; dovetti rileggere il titolo più di una volta perché la punteggiatura non mi quadrava. Ma dopo averne capito il senso e averlo anche apprezzato per il gioco di parole, da una rapida scansione del primo capitolo intuii che stavo stringendo tra le mani il prodotto di qualcuno a cui piace travestirsi da intellettuale. Circa duecento pagine di lamentele in cui prendono forma una miriade di paturnie di quarantenne inoltrata e in cui vengono dispensate a piene mani pillole di pseudo-saggezza sul principe azzurro, la principessa rosa e il principe arcobaleno – perché di questi tempi la tolleranza al mondo gay potrebbe essere un’efficace causa politica da sposare.
Infatti l’autrice, nata a Roma nel 1970 e residente a Parigi, è deputato del Parlamento italiano nelle file del PD. Non solo, insegna all’Université Paris-Descartes ed è sposata con Jacques De Saint Victor, critico letterario francese, docente all’Université Paris-VIII e visiting professor all’Università di Roma3 – e, per inciso, figura copiosamente citata nel libro. Ma non sono qui per parlare della vita personale di Michela Marzano, anche se una piccola introduzione mi sembrava doverosa, perché lo ammetto, ci sono rimasta di stucco quando ho scoperto che gode di una notevole fama nel mainstream.
Ad ogni modo, meglio procedere con la critica sul libro, eccone alcuni stralci: cap. 6 “Il Silenzio”, pag. 38: «[…] quando si cede alla passione, prima o poi la cristallizzazione finisce. E allora è un fuggi fuggi generale, con un corteo infinito di sensi di colpa e disperazione», oppure cap. 7 “Perché lui, perché lei”, pag. 44: «Perché lui? Lo so. È semplice. È lui perché, quando sono con lui, mi sento dipendente. Specialmente quando mi dice che quello che faccio va bene. Prima di farmi capire che mi lamento troppo, che devo smetterla di prendermi troppo sul serio, che drammatizzo inutilmente. […] Perché lui? Perché mi tiene in sospeso. Perché alterna la dolcezza e i rimproveri. Perché mi infantilizza. Perché mi zittisce.»
Più volte mi sono chiesta se sia l’abito da pseudo-intellettuale che indossa o se, invece, siano i concetti e il modo di esporli a suscitare in me sgomento e disapprovazione – inutile dirvi che ancora sono terribilmente confusa. Quando lessi quei due passaggi per la prima volta, non potei fare a meno di notare una lampante vacuità di idee che, a mio parere, usa solo per risultare interessante. Cosa significa “finire nella cristallizzazione dopo esser ceduti alla passione”? E poi perché fuggire? O, peggio ancora, perché sentirsi in colpa? In soldoni, perché generare problemi?
Ammesso che stesse parlando di un personale aneddoto di vita, penso che abbia comunque commesso l’errore di non immedesimarsi nel suo lettore. Ad esempio potrebbe essere un adolescente con difficoltà a sbloccarsi con le ragazze che, dopo aver letto di improvvisi sensi di colpa per essersi finalmente abbandonato al piacere delle carni, rischierebbe solo di alimentare ulteriormente le sue insicurezze. Oppure una donna in età adulta che ha tradito il proprio partner, e non penso che in questo caso sia corretto fomentare un istinto di fuga dalle proprie responsabilità lasciandosi fagocitare da angoscianti pentimenti. E infine, perché non considerare la remota ipotesi che il lettore sia semplicemente qualcuno che non ama leggere di paranoie infondate su fuggi fuggi post coitum, disperazione e rimorsi per ciò che è stato? – sì, se non si fosse capito, appartengo a questa categoria.
E che dire di quando dichiara quasi con fierezza di sentirsi dipendente? Ecco di nuovo il turbinio di egocentrismo in cui non conta quello che il lettore potrebbe recepire. È come se in questo momento Michela Marzano fosse sdraiata sul lettino del suo psicanalista, ci confida il suo vissuto e le conclusioni a cui è approdata, ma inconsapevolmente contribuisce a rendere più difficoltosa la tanto agognata parità dei sessi. Qual è la sua idea di emancipazione femminile? È un’emancipazione più sessista del maschilismo stesso o un’idea di rispetto per l’individuo e le sue idee a prescindere dal sesso di appartenenza? È un attacco efferato a una scelta di vita le cui opinioni lasciano il tempo che trovano o un’esortazione (molto teorica e poco pratica) ad uscire dal ruolo di donna dipendente dal proprio partner? Cosa ha da dire se, a più riprese, asseconda la sua natura di donna disposta ad accettare rimproveri come un’infante alla veneranda età di quarantaquattro anni?
E soprattutto, nel 2010 scrisse un altro libro dal titolo “Sii bella e stai zitta”, dove si scagliava con unghie e denti contro il modello di riferimento delle veline, ma adesso ci rivela che le piace farsi zittire, farsi tenere in sospeso, farsi rimproverare, farsi infantilizzare. Tuttavia, da un’autrice che intitola il ventunesimo capitolo del suo libro “Perdutamente romantica”, c’è da aspettarsi di peggio. A dire il vero, all’inizio sembra sulla strada giusta: «Chi ha imparato da bambino che poteva restare solo senza impazzire di dolore per aver perso tutto potrà lasciarsi andare all’amore senza rischiare di nuovo la vita. Potrà capire che l’amore può anche svuotarci, ma non ci annienta. E che, perdendo l’altro, perderà qualunque cosa tranne se stesso» (pag. 116). Oibò, finalmente mi trovo d’accordo con lei, finalmente ha qualcosa da dire sull’autosufficienza. Ma invece no, perché dopo poche righe si perde di nuovo in un bicchiere d’acqua e ne esce con un bel pugno di mosche in mano: «E chi da bambino non ha imparato niente di tutto questo? Chi si è già spento psichicamente perché è stato abbandonato troppo presto, quando non aveva la possibilità di sopravvivere da solo? Chi tira avanti appoggiandosi come può alle cose che deve fare, senza mai perdere il controllo, perché se dovesse accadere precipiterebbe di nuovo? Chi tradisce per non farsi tradire e lascia per non essere lasciato? È semplice. È banale. È anche terribile. Chi è così, non potrà mai credere negli altri, e lasciarsi andare, e prendere il rischio di amare» – brividi – «Quell’amore che dà forma all’esistenza. Quell’amore che copre tutto. Tutto. Sempre. Anche quando lui non c’è» (pag. 117). Arrivata a questo punto, sono pervasa dalla più totale confusione mentale. Ma soprattutto trovo molto offensiva la sua opinione su coloro che tradiscono per non essere traditi o che lasciano per non essere lasciati. In poche parole, sta escludendo a priori la possibilità che queste persone possano vivere l’amore nella sua pienezza, li sta privando della speranza di lasciarsi andare al rischio di amare, perché «chi è così, non potrà mai credere negli altri».
A mio parere, un’insegnante, intellettuale e filosofa degna di tali appellativi, non inscatolerebbe mai le persone in una categoria come fossero sardine in un barattolo di lattina. Ma forse sta solo nuovamente parlando di sé, perché riprende il discorso in prima persona: «Io adesso la porta la apro, ma tu poi che cosa fai? Mi pensi, mi parli, mi ascolti, mi telefoni, mi scrivi, mi consoli, mi fai un regalo, vero? Vieni a prendermi alla fermata della metro, parti con me, mi accompagni all’aeroporto, mi saluti con un bacio, mi stringi forte forte, mi dici che mi ami, mi dici che mi ami, mi dici che mi ami, ma mi ami? E quanto? Me lo dici, vero? Ma forse non mi pensi, non mi parli, non mi telefoni, non mi scrivi, non mi consoli, non mi fai un regalo. È così, vero? E allora non mi vieni a prendere alla fermata della metro. Non parti con me. Non mi stringi forte. Non mi saluti con un bacio. Non mi ami. Non mi ami. Non mi ami. Ma come mi tratti? Per chi mi prendi? Perché dovrei fidarmi di te?». Interessante… ma posso garantire che una donna di venticinque anni che legge il libro di una di quarantaquattro, invece, si preoccupa del suo futuro e spera di non diventare così.
E infatti, proseguendo nella lettura, non c’è nulla di rassicurante, perché a pag. 39 mi imbatto nella condizione psicologica che ho sempre cercato di non fare mia. Cito: «Jacques stava per andare in Grecia. Un viaggio di tre settimane pianificato da tempo. E che però, per me, arrivava troppo presto. “È inutile in che senso?” gli rispondevo con ansia. Già certa che in Grecia non avrebbe più pensato a me. Mi avrebbe cancellata, avrebbe incontrato un’altra donna, tutto sarebbe finito. “Nel senso che tanto poi ci vediamo quando torno” mi diceva, facendo finta di non capire la mia agitazione. “Io per te non conto veramente nulla” sbottavo irritata. Ma come fa a non capire che in quel silenzio sparisce tutto, che con l’assenza l’amore muore, che niente sopravvive al tempo e alla distanza? Come fa a non accorgersi di questo vuoto d’amore che non si colma, il cuore come un bambino che piange e che nessuno vede? “Ma sei completamente matta?”».
Quello che mi chiedo è: come si può scrivere un libro sull’amore omettendone la prerogativa fondamentale, ossia la resistenza al tempo e alla distanza? Lei dice: «Con l’assenza l’amore muore», e di nuovo mi sento profondamente scoraggiata a proseguire questa lettura. Non posso credere che un libro dalla pretesa pedagogica contenga delle lacune concettuali di tale portata, perché se l’amore è basato su valori solidi quali stima, rispetto e fiducia verso l’altro, allora è molto difficile che si lasci sgretolare dalla distanza. Trovo inammissibile che una filosofa non incoraggi un’educazione di questo tipo, ma che anzi, fomenti una forma comportamentale paranoide, descriva i rapporti amorosi con scarsissima maturità intellettuale e, di nuovo, ci renda partecipi delle sue più buie elucubrazioni mentali, negandoci di considerare un approccio consapevole e assennato alle dinamiche di coppia. Quando ci parlerà di alimentare la sicurezza verso se stessi? E soprattutto… quando la smetterà di raccontarci dei suoi litigi con Jacques? Ma sono sempre più perplessa quando leggo: «L’amore comincia quando ci si abitua ad averlo accanto» (pag. 45).
Mi è venuto spontaneo domandarmi quale sarebbe il parere di una persona reduce da anni di vita coniugale. Il mio è che l’amore comincia quando ci si spoglia della maschera che indossiamo per le meccaniche di autodifesa, quando l’abbandono nell’altro è accompagnato dalla fiducia verso se stessi, perché si è certi che il nostro benessere psico-fisico dipende dall’amare ed essere amati. L’abitudine e la routine sono le più acerrime nemiche dell’amore, lo annientano, lo abbrutiscono, lo uccidono. Successivamente scelgo di analizzare il trentatreesimo capitolo, “Il matrimonio”, e un residuo di speranza si accende in me. Vorrei leggere che sancire il proprio legame affettivo è un atto di sfrenato narcisismo, o che non rafforza nulla perché l’amore vero non cerca conferme scritte su un pezzo di carta. Ma invece no, tutto quello che ottengo potrebbe essere definito “il diario segreto di Michela Marzano”, un resoconto del suo giorno di nozze che vi risparmio e le solite paranoie su ciò che è e ciò che sarà – «Venti minuti pieni di paura – e se poi finisce tutto? E se è l’inizio della fine? E se poi incontro un’altra persona? E se la incontra lui?» (pag. 166). Complimenti, proprio il genere di pensieri che è il caso di fare davanti all’altare! Ma la vera chicca arriva inaspettatamente, proprio nel mezzo della descrizione del suo matrimonio. È qui che ci espone la sua opinione circa i matrimoni gay: «chiunque dovrebbe avere il diritto di sposarsi se lo vuole, indipendentemente dal sesso e dall’orientamento sessuale, indipendentemente dalla storia che ha vissuto e da quello che vivrà» (pag. 167).
Va benissimo che “benedica” l’amore omosessuale, ma c’è qualcosa che stona, questa improvvisa sterzata ideologica è inappropriata e fuori luogo. Le opinioni vanno contestualizzate, non sbandierate o, peggio ancora, strumentalizzate. Nel leggere questo passaggio, ho la netta sensazione che non faccia altro che servirsi di una tematica così scottante solo per conferire maggiore credibilità alla sua dubbia veste di donna emancipata. Ovviamente, l’Onorevole Marzano ha dato il suo contributo anche in Parlamento, promuovendo la cosiddetta “legge di civiltà” sul doppio cognome che, però, a luglio fu bloccata dal suo stesso partito.
Non voglio sminuirne il valore, ma resto col dubbio che queste sue lotte progressiste siano più che altro funzionali alla costruzione di un personaggio. Leggere questo libro, in fondo, è stato illuminante; mi ha costretto a riflettere sul cambiamento di significato della parola “filosofo”; nella società odierna questa figura appare svuotata della propria capacità di trasmettere valori fondamentali e cultura. Nei dialoghi de “La Repubblica” Platone immagina che gli uomini siano governati dai filosofi, ma temo che non fosse questo lo spessore intellettuale a cui ambiva. Per scoprirlo, non mi resta che andare in libreria e acquistare il libro giusto, quello che nessuno mi ha regalato.
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