Cate, io, pubblicato da Fazi, ha vinto il premio Campiello Opera Prima narrando una storia di discriminazione e di lotta quotidiana. È la disperazione di Caterina che dona coraggio oppure l’intelligenza della ragazza si affina conseguendo comportamenti strategici e poco istintivi?
Caterina addomestica la disperazione con l’intelligenza. L’attutisce e la circonda di gommapiuma.
La disinnesca come un artificiere, guida e controlla le esplosioni di dolore. Occorre tutta la sua intelligenza per riuscirvi: è una equipe intera di geologi, ingegneri e architetti che edifica una fortezza intorno alla sua disperazione. Questa fortezza ha feritoie e non finestre, ponti levatoi sigillati. La sua intelligenza e la sua disperazione non hanno previsto tempi di pace, hanno letto il comportamento degli altri come un ultimatum e si sono disposte alla guerra, esclusivamente: la stupidità della sua intelligenza e la forza della sua disperazione sono tutte qui, nel loro integralismo, nella loro compattezza: e se ci fosse la pace, anche la pace, là fuori?
In un processo di destrutturazione del vissuto, in una battaglia di svelamento di ciò che si è indipendentemente dal giudizio altrui, l’obesità diventa argomento di riflessione e ironia. Lei crede che il suo romanzo possa aiutare chi ne soffre?
Credo che il romanzo possa aiutare perché non ha intenzione di farlo. Non è una faretra di messaggi e pillole salvifici, è semplicemente una storia, la storia di Caterina. Ed è una storia della sua taglia, un vestito sartoriale su misura: ma può aderire alle vite di tanti - soltanto una spalla o le maniche, sul petto o sui bottoni – di tanti: e non tutti obesi, perché l’obesità è la declinazione di un disagio che in forme più o meno tenui accompagna l’adolescenza, perché di adolescenza, in fondo, si tratta: lo scontro sull’autostrada dei propri sedici, diciassette anni del modo in cui vogliamo essere col modo in cui ci vedono gli altri, dei nostri sogni purissimi con la realtà.
Il laboratorio ramificato interiore di Caterina abbraccia di continuo la letteratura, come nel rapporto con la professoressa d’italiano. Ha scelto l’immaginario letterario della ragazza con precise logiche?
Sì; c’è una bibliografia che sostiene la storia, puntellandola. Pirandello, Tozzi, Gadda sono autori di un programma di quinta liceo, ma non è solo questa appartenenza a giustificarne la presenza: sono anche autori che amo particolarmente (come Tozzi, quasi dimenticato artefice di una splendida prosa asimmetrica), che affrontano tematiche aderenti, esplicitanti il punto di vista e la situazione di Caterina (il Pirandello de Il fu Mattia Pascal e di Uno, nessuno e centomila) donando alla sua vicenda un respiro più profondo.
L’io narrante è spietato ed esclusivo, c’è una ragione famelica simbolica che accompagna la narrazione?
C’è una ragione icastica. Il romanzo è un vulcano che si costruisce attorno la frattura dell’io di Caterina. Circolarmente cresce e si solidifica in immagini – similitudini e metafore – che spostano ad ogni pagina i confini della sua sofferenza e, insieme, della sua mole. È una obesità di parole che privata di ogni dato oggettivo (Caterina nessuno sa quanto pesi, quanto sia alta, quali siano i suoi lineamenti) fluttua magmatica tutt’intorno al lettore e avvolge, soffoca, impedisce di vedere se non attraverso i suoi occhi.
Più volte nel romanzo il connubio scrittura/lettura funge da oblio partecipato nelle giornate di Caterina, quasi a voler marcare una cesura fra fuori e dentro, fra possibile e impossibile. Lei reputa che la solitudine debba contemplare se stessa, e quindi la sua bellezza, grazie alla lettura/scrittura o forse, senza ipocrisie, solo così la solitudine acquista una pesantezza più leggera?
Ho sempre trovato estremamente affascinante la solitudine nelle biografie degli scrittori: di più le solitudini non scelte, ma imposte: solitudini consapevoli, comunque. Caterina va verso gli altri con entusiasmo, sa che la felicità è tale solo se condivisa, vuole omologarsi senza essere omologata (paradosso pulsante dell’adolescenza): la solitudine in cui viene rinchiusa è un luogo in cui non vuole assolutamente trovarsi. È lì per il suo peso, per lo spazio che occupa il suo corpo: sa bene che sopporterebbe l’emarginazione per difendere, anche da sola, una sua idea – ma non per la sua grassezza. Non se l’è scelta, è. Ed esistono quindi diverse solitudini, alcune bellissime e letterarie, altre che invece non andrebbero mai vissute: la storia di Caterina è una di queste.
Per accedere alle altre interviste dello Speciale dedicato al Premio Campiello 2013, cliccare sul nome dello scrittore: Beatrice Masini, Giovanni Cocco, Fabio Stassi, Valerio Magrelli e Ugo Riccarelli.
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