Figli dello stesso padre (Longanesi), ma figli così diversi, se non agli antipodi. Il gioco degli opposti è stato semplicemente un artificio narrativo oppure un modo per riprendere nell’amore/odio per il padre la triade biblica Caino, Abele e Dio?
Direi entrambe le cose anche se io pensavo di più a Urano, Crono e Zeus vista la mia formazione e passione per il mito greco. Quanto all’artificio narrativo, ci tenevo a sottolineare come si può diventare in un modo semplicemente contro qualcuno, in questo caso il padre. I due fratelli non sarebbero diventati così se avessero avuto un altro padre. E, come molto spesso accade, per punire qualcuno puniamo noi stessi. Il romanzo è la difficile educazione sentimental-familiare di Germano ed Emilio per riuscire ad diventare finalmente ciò che sono contro ciò che sono diventati per forza, per essere esattamente il contrario di quel padre amato e odiato, ma soprattutto amato e stimato intellettualmente. Di certo avrebbero avuto cammino più semplice se quell’uomo fosse stato, oltre a ciò che era, anche un “uomo senza qualità”.
I legami di sangue sono irrisolvibili se non nella chiarificazione consapevole dell’alterità, che, in forma di specchio, travalica le logiche razionali. Forse, siamo destinati a rapportarci con gli abbandoni come se fossero entità vive, ineludibili e in grado di metterci di continuo al muro della verità?
Gli abbandoni li compiono proprio delle entità vive, è questo che duole. Inoltre i legami di sangue sono ben diversi dai rapporti amorosi. Questi ultimi, quando finiscono, fanno raggiungere altissimi gradi di sofferenza, ma per quanto alti siano, a un certo punto cominciano ad abbassarsi, e lo fanno progressivamente fino a che vengono del tutto riassorbiti. Nei confronti di un padre, invece, questo riassorbimento del dolore procede per una strada contraria. Al momento della separazione dei genitori, Germano sembra la prenda addirittura bene. Credo sia quasi sempre così da bambini, si ha il grande potere (solo apparente) di elaborare il lutto in grande velocità. Invece non è così, il dolore dei figli si può aprire in voragine quando il dolore dei genitori è ormai completamente rimarginato. Era su questo che volevo ragionare, su quanto può essere cara e pesante, sulle spalle dei figli, anche una separazione necessaria come quella tra Giovanni e Edda e poi tra Giovanni e Costanza.
Due abbandoni che producono una famiglia allargata: può essere una visione di speranza nonostante i drammi raccontati?
Credo (spero) che il tema centrale di questo romanzo sia l’idea che soffrire stanca. L’istinto di sopravvivenza non riguarda solo il nostro corpo ma anche il nostro spirito. Certo, l’anima può essere più persistente, non si lacera, non sanguina nel vero senso del termine, ma a un certo punto credo si raggiunga comunque un culmine del dolore, dopo il quale ci deve essere per forza la necessaria parabola discendente. Anche se con tempi più o meno lunghi, l’essere umano tende al riassestamento e, soprattutto, alla fuga da ciò che gli nuoce. Ovviamente non tutti, ci sono anche i casi clinici come appunto il padre dei due fratelli, che di male ne fa agli altri e a se stesso fino alla fine. Ma di caso clinico si tratta.
Le madri della storia rimangono in penombra. L’assenza rumorosa del padre mette in secondo piano la presenza di chi è rimasto?
Volevo scrivere un libro nel quale gli uomini fossero i protagonisti. Ho cercato di mettermi nei loro panni, di assorbirne tutto quel laconismo che tanto li fa soffrire in silenzio. Restando in tema greco, le madri sono il coro, dunque lo spettatore ideale della tragedia, in questo caso il lettore ideale, perché stanno lì che partecipano, consigliano, consolano, insomma lardellano quei silenzi degli uomini che però hanno i loro tempi e, per natura, non ascoltano nessuna Cassandra.
Editrice, traduttrice e scrittrice, come convivono: si integrano in forma ibrida o riesce a generare nette separazioni?
Editrice non lo sono più, sono rimasta socia di minoranza della Cavallo di Ferro, ma non ci lavoro. Però proseguo con la traduzione che è davvero l’unica forma di meditazione che riesco a praticare. Quando traduco sono davvero capace di spegnere il cervello e a non far altro che trasporre nella mia lingua il romanzo di uno scrittore straniero. Anche se lavoro per due o tre ore di fila, finisco sempre con una piacevole freschezza mentale, addirittura migliore di quando mi sveglio dopo una buona dormita. Però riuscivo a fare tutto anche quando mandavo avanti la casa editrice, e poi scrivo articoli di critica letteraria su qualche testata, e poi ho anche una famiglia della quale mi occupo molto. Ho messo in pratica un consiglio che mio padre mi dava quando ero piccola: “Avvantaggiati!” E io continuo fosforicamente a farlo.
Come si preparerà per la serata finale del Premio Strega?
Sono una donna pragmatica e scaramantica insieme. Il destino mi affascina e non ho mai escluso che gli dèi ci mettano del loro. Dunque dipenderà dal loro sguardo, da chi (tra i moltissimi che sono) deciderà di giocare con noi cinque mortali. Credo comunque che indosserò qualcosa di verde, colore non solo della speranza ma anche dell’equilibrio. Quella sera ci sarà bisogno di entrambi.
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