Avevo avuto modo di conoscere ed apprezzare l’arte di Miriam Prato nella galleria piacentina Jelmoni e poi me la sono ritrovata a diverse mostre tra Londra, Milano e Pavia. In un momento in cui i social network deprezzano il valore del nostro tempo libero con un surplus di futilità, mi ha incuriosito dedicarne un po’ del mio a questa estrosa signora di Stradella, sul confine tra Lombardia ed Emilia-Romagna.
Miriam, vissuta in quella zolla di frontiera tra il pavese e il piacentino, ha un passato da restauratrice di libri antichi. Chi ha fatto di questo mesterie un’arte non può che avere una grande dote, rarissima di questi tempi: l’occhio vigile sul dettaglio della memoria.
In questa traiettoria la Prato sequestra un dettaglio di vecchio libro, finito per sua sfortuna in una soffitta impolverata, e lo riporta alla luce nel perimetro di una bella opera d’arte.
Osservare i suoi lavori è come annusare un libro antico che possiede, nelle vecchie incisioni, i germogli di un campo aratro tra passato e futuro. Se vi mettete a caccia di una vecchia stampa di Durer del XVI secolo – mi riferisco al famigerato Rinoceronte – vi accorgerete che Miriam Prato ha la capacità di riproportelo senza farci perdere l’olfatto autentico.
E’ irresistibile quell’impronta di colori equilibrati, capace di condensare le radici di una biblioteca sulle pareti, in una cornice in cui l’olfatto della visione è direttamente proporzionale all’interpretazione personale e originale della memoria.
Prendere l’arte e metterla da parte? Non ci penso proprio.