Si è concluso ieri il corso intensivo d’italiano organizzato come ogni anno dalla Dante Alighieri di Auckland. Cinquanta studenti, cinque insegnanti, cinque giorni di lezioni, pranzi, chiacchiere e visione di film.
Il tema di questo corso è stato l’immigrazione, fenomeno di cui solo negli ultimi decenni sembriamo esserci davvero ricordati, ma che ha caratterizzato la storia dell’umanità – e dell’Italia in particolare – dalle sue origini fino ai nostri giorni. In fin dei conti non esiste paese o città che non siano stati costruiti sull’accumulo delle scelte, delle fatiche, delle sofferenze e del coraggio degli uomini e delle donne che hanno deciso d’andarci a vivere.
Il primo dei film proiettati è stato Pane e cioccolata (1973) di Franco Brusati, con uno straordinario Nino Manfredi nella parte del protagonista. Pane e cioccolata ha risentito forse un po’ troppo dello scorrere degli anni, ma i suoi (pochi) difetti sono di gran lunga controbilanciati dai (numerosi) pregi: i difetti vanno ricercati nel ritmo, nel montaggio e nella lunghezza di certe scene che in alcuni casi (come ad esempio nell’episodio del pollaio) passano dal surreale al grottesco, per poi sconfinare malauguratamente nel didascalico. I pregi stanno invece nella capacità di raccontare una storia legata ad un argomento difficile (quello dell’emigrazione italiana in Svizzera negli anni sessanta) e di saperlo fare coi toni di una commedia che non ha paura di dire la verità (come nei migliori casi della Commedia all’Italiana) fin quasi ai limiti dello sgradevole: gli italiani sono in fondo visti dall’europa moderna e benestante (rappresentata in questo caso dalla Svizzera) come un popolo ignorante e becero, a cui vengono affidati i lavori più miseri e degradanti, e a cui si guarda più con disgusto che con compassione. Ma alla deriva disumanizzante che trascina con sé molti immigrati, Brusati contrappone la dignità del protagonista che non vuole sottostare alla regola dell’emarginazione e della solitudine.
Greci, spagnoli, portoghesi, italiani: la massa dei clandestini che cercano di camuffarsi tra le strade ben pulite della Svizzera proviene da quelle stesse nazioni che oggi, a cinquant’anni di distanza, navigano pericolosamente sulla rotta del default.
Pane e cioccolata è un film che vedrei bene sulla RAI, al posto dell’ennesima tribuna politica, per ricordare agli italiani la maniera in cui eravamo visti fino a pochi decenni fa.
Il secondo film è stato Nuovomondo (The Golden Door) 2006, di Emanuele Crialese, un piccolo capolavoro, uno di quei rari esempi di grande cinema che l’Italia riesce ancora a produrre e a distribuire sebbene la nostra industria cinematografica sia da anni rinomatamente in crisi. Come tutti i registi di grande talento Crialese ci racconta la sua storia in primo luogo attraverso le immagini, creando scene di forte impatto visivo, sequenze in cui ogni fotogramma racchiude più significati, e dove realismo e simbolismo convergono in una narrazione capace di far riflettere ed emozionare.
Crialese non lascia nulla al caso, è un perfezionista, è un mago minimalista a cui bastano pochi elementi per raggiungere una pienezza narrativa significante ed estetica che in Italia ha pochi termini di paragone.
Basterebbe la scena dell’ascesa al monte, come quella della partenza della nave e della tempesta durante l’attraversamento dell’oceano, a far capire come, al di là delle risorse di cui si dispone, è l’uso che ognuno ne sa fare, a determinare l’emergere di un’opera di qualità nel mare sempre più anonimo ed appiattito del facile consumo.
Nuovomondo è piaciuto a tutti, ha emozionato tutti, ha fatto tutti riflettere. E in tutti ha lasciato un piccolo seme: emigrare significa trasformarsi, significa rinnovarsi, significa lasciare la parte di sé incapace d’evolversi e preparasi a rinascere: in fin dei conti non c’è emigrazione che non comporti una morte, quella fine difficile e necessaria di chi continua a credere nelle possibilità della vita. Quello di Crialese è in questo senso un film sulla volontà e sui sogni delle persone, e un omaggio a tutti coloro che hanno ancora la visionarietà, l’immaginazione, l’avventatezza e il coraggio di seguirli fino in fondo.
Non è poco, dati i tempi che corrono.
Come in ogni suo film Crialese inserisce anche qui una figura femminile, una sorta di faro illuminante, una guida, una forza centrifuga che permette ai protagonisti di trovare la propria strada tra le difficoltà della vita. In Nuovomondo questa figura è una straordinaria Charlotte Gainsbourg, Lucy, da tutti chiamata Signorina Luce, che rappresenta la donna moderna, capace di fare scelte difficili e di rimaner loro fedele, tenendo testa agli uomini in un mondo saldamente in mano agli uomini. In un anno costellato di femminicidi come quello appena trascorso in Italia, mi sembra che la Signorina Luce sia una donna con cui valga la pena emigrare, ora, adesso, subito, verso un luogo nuovo, un luogo capace di rinnovarsi, una terra promessa, un paese che sia finalmente capace di tirar fuori il meglio dalle persone che hanno deciso di continuare a viverci.
Nuovomondo lo trasmetterei in prima serata, al posto del Festival di Sanremo, perché la gente il giorno dopo si possa svegliare col vento leggero delle cose che verranno, invece del ritornello già sentito di cui poi, in fondo, faremo tutti presto a dimenticarci.
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