Solo Dio perdona? Questo é il problema.
“Solo Dio perdona” arriva due anni dopo il grande successo di “Drive”. Film che ha fatto urlare al capolavoro gli amanti del genere.
Le immagini, i silenzi, la musica ci accompagnano con la stessa miscela esplosiva di talento alla conclusione della tetralogia iniziata con “Bronson”.
La storia é ambientata in Thailandia. Terra lontana e conosciuta da tutti per le bellezze ed i limiti: prostituzione a basso costo, droga, Muay thai.
La trama é semplice, quasi basilare. Due fratelli Billy e Julian, gestiscono una palestra di boxe thailandese, usata come copertura per lo spaccio di droga.
Una sera Billy, fratello maggiore di Julian, viene ucciso dopo aver abusato di una ragazza minorenne. L’arrivo di Jenna madre di Julian, darà il via ad una spirale di vendetta e sangue senza ritorno. Refn in questo film opta per una messa in scena quasi teatrale. Pare di assistere all’ Amleto shakespeariano, tanto i tempi sono dilatati seppur, mai eccessivi. Le idee alla base della storia altro non sono che, frammenti di personaggi già presenti nei classici moderni del cinema orientale, da “Old Boy” di Park Chan-wook a “Ichi The killer” del maestro Takashi Miike.
E’ proprio da questo film che sbocciano concettualmente le più significative similitudini, delineandosi nettamente due forme di personalità stridenti opposte ed estreme: Ichi, killer psicopatico (il sadico perfetto) e Kakihara (lo yakuza masochista).
Anche Julian è un masochista perfetto, l’eterno secondo, vittima di una madre dominante ed incestuosa. Un bambino ancorato all’utero materno con un complesso edipico insuperato che travalica nel patologico.
Il caleidoscopio di colori caldi e freddi del settore luci, riprende a piene mani, Bronson, Valhalla Rising cortocircuitandolo in un “Enter the void” con simbolismi alla El Topo.
E’ il colore insieme alle mani ad essere il vero protagonista del film. Un rosso rabbioso, sporco, infetto che si contrappone ad un liberatorio color indaco .
Gli arti toccano, accarezzano, penetrano la coltre buia del ricordo, senza però riuscire a colmare i sensi di colpa. Il fallimento perpetuo si tramuta in una furia crescente quanto improvvisa ed autodistruttiva.
La battaglia tra Chang e Julian altro non é che, il momento purificatore. La rappresentazione del perenne fallimento dell’uomo contro un Dio troppo grande, troppo forte ed assolutamente incorporeo.
Tutto il resto è silenzio.
Christian Humouda