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Presentazione a "Rocciacavata" (1994)

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Presentazione a
Maturai l’idea di scrivere questo lungo racconto nel marzo 1994. Lo portai a termine nell’estate. I personaggi erano tratti da «Il libro delle “vocazioni”». Ma avvertivo al suo fondo che in quei “bozzetti” la mia poetica rischiava di rimanere imbozzolato in uno stadio nostalgico tardoveristico. In verità, in quelle prove, il problema cruciale che mi ero posto era proprio quello di superare l’intento rappresentativo della realtà. Per fortuna, però, non sempre si ha ragione in tutto: un certo linguaggio referenziale, specialmente quando si trattano immagini, non può essere completamente abbandonato, altrimenti si rischia di cadere nel puro esercizio espressionistico, come è accaduto a tanti «gaddini», che hanno risolto il loro stile in un virtuosismo fine a se stesso.
Oltre la parola, prima della parola, c’è l’immagine: l’immagine è quel fondo preverbale che nasce dal contatto vivo con l’esperienza, e che soltanto in seguito, e non sempre, prende forma nelle parole, prolungandosi così nel tempo. Le parole scritte, dunque, sono copie false di quelle immagini, o rappresentano soltanto il tentativo di dar loro corpo. Ma il riflesso delle immagini spesso si stinge nelle parole. Avrei voluto recuperare il sapore evocativo delle immagini, quella realtà extralinguistica, che prima di allora giudicavo negativamente. Mi sono reso conto, in effetti, che tra la realtà dell’esperienza e quella linguistica esiste l’immaginazione, che non può essere assimilata alla parola, non equivale cioè alla «nebulosa» di saussuriana memoria.
In questo mio racconto lungo, il narratore è uno storico, che in ragione di una sua ricerca si ritrova a vivere per qualche tempo in un paese del Sud: Rocciacavata. Qui lo storico, già autore di saggi celebri, diventa amico o conoscente dei personaggi più influenti del paese. Tra loro spicca la baronessa Clara De Miranda: è una donna giovane, ultima discendente di una famiglia di notabili, che, pur essendo ricca e bella, vive ai margini del paese; anzi, guarda con distacco e animo disincantato quanto le accade intorno. È una lettrice accanita che non risparmia nessuna critica alla piccineria dei suoi concittadini.

Lo storico/narratore, mentre ricostruisce pezzo dopo pezzo la vicenda storica di cui si sta occupando, racconta anche i dialoghi e gli incontri con i personaggi del paese. Il protagonista avrà i dialoghi più importanti, che provocheranno delle conseguenze anche sulla sua ricerca, proprio con la baronessa. Tra i due si stabilisce un legame cerebrale, che riuscirà ad incatenare lo storico all’essenza spirituale della baronessa. Occorre notare che dello storico/narratore, anche se famoso e conosciuto, non viene mai pronunciato il nome. La sua identità è data soltanto dal proprio ruolo, quello appunto di storico o professore di storia, come se al di fuori di questa funzione egli non avesse esistenza. Egli infatti come uomo è un essere «invisibile»: s’aggira tra le strade e le viuzze senza essere «visto»: ciò che gli altri vedono è soltanto il suo ruolo. È infatti un uomo senza una «identità» che può svelarci verità inconfessabili. La verità è condotta per mano da chi identità non ha. L’aspetto stilistico che vorrei maggiormente sottolineare riguarda la scomposizione dei tempi narratologici. Nel racconto sono presenti due registri narrativi: il primo riguarda le esperienze vissute dal protagonista a Rocciacavata; il secondo il modo in cui egli ricostruisce le vicende storiche di cui si sta occupando. I due piani non risultano separati: la vicenda storica non ha nel racconto un’importanza marginale: anzi, per taluni aspetti, è più importante dello stesso presente, in quanto interagisce con esso, e le scoperte effettuate dallo storico hanno una profonda incidenza nello sviluppo della sua coscienza storica e umana. Per mettere in risalto questi due piani ho usato due ritmi narrativi diversi: un ritmo storico che dà l’apparenza della mutevolezza della realtà, e risulti essere un tempo che consuma e disfa ogni cosa senza conoscere sosta; e un ritmo metafisico che rallenta il flusso degli eventi e sembra porre ogni cosa in una dimensione temporale quasi assoluta. Lo stile paratattico nella sua intenzionalità aveva anche il compito di eliminare l’illusione che l’ordine delle frasi possa ricostruire fedelmente le azioni nella loro concatenazione. Il linguaggio verbale tradisce in sé l’antica e dotta aspirazione di poter ordinare il mondo in sequenze concatenate. L’uso dello stile ipotattico offre spontaneamente alla mente del lettore l’idea che nella realtà vi agisce una causalità intrinseca. Dal punto di vista del narratore i fatti, le scene e i dialoghi, così come accadono nel corso della vita, non hanno di per sé un vincolo tanto forte da sembrare anelli di una catena il cui senso si rivela alla fine di tutti i suoi passaggi. Se così fosse ogni vita cosciente dovrebbe attendere il limite della morte per scoprire infine la sua essenza ultima. Il senso che noi ogni volta scorgiamo tra le cose non è tra le cose stesse, ma soltanto nella nostra volontà o nel nostro bisogno di scoprire un senso nelle cose. Soltanto quando vediamo una prospettiva di vita conclusa o definitiva, allora pensiamo che tutto ciò che è accaduto è accaduto perché così doveva accadere. Ciò che in sé era pura possibilità, pura contingenza dell’essere, assume le sembianze della necessità, a cui noi diamo nome di “destino”. Paradossalmente è a questo bisogno che non possiamo sottrarci. È a questo bisogno che siamo condannati come un destino. Non sappiamo sopportare l’idea che oltre la contingenza, la pura causualità dell’essere, la volontà di crederci in ogni caso necessari al mondo e all’universo, parti di un disegno la cui forma in tutta la sua complessità ci sfugge, si rivela soltanto l’illusione della nostra vanità di essere.

La forma del racconto è circolare: la fine coincide con il principio. Il momento in cui il protagonista inizia a rievocare l’esperienza vissuta a Rocciacavata narratologicamente è posto alla fine del racconto dopo il suo ritorno in città. Il momento in cui lo storico decide di scrivere questo racconto si struttura all’interno di esso, ed è quindi parte del racconto stesso: l’impulso a scrivere si comprende solo dopo aver letto quanto egli ha vissuto a Rocciacavata. Idealmente si colloca al suo termine. In realtà, cronologicamente, questo momento si situa all’inizio del racconto: la decisione precede la scrittura. Giacché il narratore è interno, allora anche la sua scrittura e la decisione di scrivere non sono momenti che stanno al di fuori della realtà narrata, ma si interiorizzano nell’atto stesso di narrare. Sui contenuti estetici non spetta a me dire qualcosa. Dirò soltanto che sono costruiti intorno all’idea che i mali e i difetti di una società si possono osservare meglio in una realtà minuscola, anziché vivendo in realtà dalle dimensioni smisurate. È un’idea che ha le sue radici storiche nel pensiero rinascimentale, quando si credeva che macrocosmo e microcosmo coincidessero nella loro essenza. Qui i termini di confronto sono cambiati, ma non la scala di misura. Più che illustrare i suoi significati, compito che non mi spetta, vorrei elencare sommariamente alcuni filoni culturali presenti in questo racconto. Ci sono i filoni filosofici e quelli letterari. Tra i primi ci sta Hegel da un lato e Nietzsche dall’altro. Un’idea, che non ho mai abbandonata, è di derivazione hegeliana: dopo la lettura della Fenomenologia dello Spirito non ho mai rinunciato all’idea di raccontare la storia di una coscienza che cambia e si trasforma attraverso esperienze non esemplari, ma del tutto comuni e ordinarie. Il Nietzsche Dell’utilità e danno della storia per la vita è presente nel rapporto passato/presente: il passato non dev’essere vissuto come una cosa staccata dalla vita. Tra i filoni letterari, ci sta il romanzo «congetturale», un’idea ripresa da Vittorini, che, secondo me, non ha avuto una completa realizzazione. Anche la narrativa dialogica riecheggia quella vittoriniana di Conversazione in Sicilia. C’è al fondo la volontà di raccontare non tanto fatti, quanto conversazioni. È presente anche l’uso, molto discreto, del pastiche di derivazione gaddiana. In mezzo a questi due filoni come anello di congiunzione c’è Leopardi, quello delle atmosfere di vita quotidiana e quello della metafisica delle stagioni. C’è il Leopardi filosofo e il Leopardi poeta uniti in un unico e poetico amplesso. E al poeta/filosofo di Recanati dedico questo mio racconto.
Roma 1994


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