di Elio Amicarelli
Nel discorso di fine anno rivolto alla nazione, il Presidente della Repubblica popolare cinese Hu Jintao ha dichiarato battaglia all’invasione culturale dell’Occidente. Nelle parole di Hu Jintao le Potenze occidentali stanno cercando di ampliare la loro influenza sull’Impero di Centro servendosi della loro egemonia culturale; a questa sfida, la Cina deve far fronte affermando i propri valori e la propria cultura. Il terreno di scontro spazia dal palinsesto televisivo alla rete internet passando per la distribuzione cinematografica e per l’editoria.
Come era lecito attendersi analisti, studiosi e commentatori delle relazioni internazionali hanno esaminato le parole del Presidente cinese alla luce di diverse prospettive teoretiche. Prenderò in considerazione la posizione di Stephen Walt (Foreign Policy) e la critica mossa da Vikash Yadav (the Duck of Minerva) per apportare in conclusione un commento in cui riprenderò alcune delle idee espresse da Samuel Huntington nel suo famoso libro Lo Scontro delle Civiltà.
Secondo Stephen Walt quella di Hu Jintao è una battaglia persa. In un’epoca in cui l’informazione si diffonde via meccanismi decentrati, un manipolo di burocrati non può controllare e dirigere il processo di formazione culturale della società. Inoltre i governi non sono in grado di pianificare a tavolino l’innovazione artistica dalla quale sorgono fenomeni culturali e di costume come la musica dei Beatles o lo stile Bebop. Sempre secondo Walt, per guadagnar vigore un processo artistico ha bisogno di una società aperta che ne alimenti gli stimoli in entrata e sia pronta ad accogliere gli effetti innovativi in uscita alimentando così un circolo virtuoso. Da questa piattaforma, Walt suggerisce che non è un caso se molti dei cavalli di battaglia dell’odierna cultura occidentale sono il frutto di percorsi che affondano le loro radici in frange marginali della società del passato; che la maggior parte degli artisti cinesi più creativi del panorama odierno siano dissidenti; che i regimi autoritari del passato non abbiano mai influito positivamente sulla creazione di prodotti culturali duraturi.
Stephen Walt conclude così: Ironically, if Hu really wants to win a culture war, he'd have to abandon some of the other social control mechanisms upon which CCP rule now depends. So if he wants to launch a culture war, I'd say "bring it on."
La critica di Vikash Yadav è incalzante: l’approccio di Walt è semplicistico nella misura in cui vede la produzione di cultura come un fatto idealmente slegato ed indipendente dall’azione statale. Nella realtà, sottolinea Yadav, ogni Stato è costantemente coinvolto in un’opera di definizione e preservazione della cultura della società. Le moderne democrazie liberali non fanno eccezione. Esse si servono di burocrazie e regolamentazioni, di sovvenzioni statali e agevolazioni elargite presso istituti nazionali (oltre che di mezzi legalmente ed eticamente discutibili). Francia e Canada sono due Paesi che spiccano per il loro impegno nel preservare la cultura nazionale ma, in diversa misura e con mezzi più o meno diretti, ogni Stato è coinvolto in un tale tipo di azione sulla società. Secondo Yadav, Walt adotta un approccio eccessivamente realista al problema, il che lo porta ad avere una visione esclusivamente materialistica del potere e a sottovalutare il ruolo delle burocrazie e degli uomini di Stato.
Vikash Yadav conclude così: The management of culture is at the heart of statecraft. Moreover, claiming that protesters are only protesting because they are misguided by foreign ideas is a classic deflection strategy. Even states in a global economy can manage the production of domestic popular culture and prevent much of the penetration of foreign cultural products through censorship, although perhaps not quite as bluntly as Hu may desire .
A questo punto prenderò le mosse per il mio commento, il quale si snoderà attraverso passaggi di Lo Scontro delle Civiltà di Samuel Huntington, partendo da delle constatazioni sulle posizioni dei due studiosi. Nell’articolo di Walt vengono toccati due aspetti importanti che invece sono assenti in Yadav ovvero quello relativo alla capacità della Cina di generare innovazione (la Cina può avere un suo Steve Jobs?) e quello relativo all’impatto delle nuove tecnologie di comunicazione sul processo di formazione della cultura popolare. Allo stesso tempo ritengo che Yadav abbia una visione molto più aderente alla realtà circa il ruolo che lo Stato occupa nei processi di acculturazione.
Partiamo sgombrando il campo da un errore abbastanza comune ovvero quello commesso da chi associa occidentalizzazione e modernizzazione come se fossero un unico concetto. Modernizzazione significa industrializzazione, urbanizzazione, maggiori livelli di alfabetizzazione, istruzione, ricchezza e mobilità sociale nonché strutture occupazionali più complesse e diversificate. In quanto prima civiltà a modernizzarsi, l’Occidente è in testa nel processo acquisizione di una cultura moderna. Ma l’Occidente esisteva molto prima di essere moderno. Le caratteristiche peculiari che distinguono l’Occidente da altre civiltà (eredità classica, cattolicesimo e protestantesimo, lingue europee, separazione tra autorità spirituale e temporale, Stato di diritto, cultura individualista per fare alcuni esempi) sono antecedenti alla sua modernizzazione (Huntington).
L’espansione dell’Occidente ha stimolato la modernizzazione e l’occidentalizzazione delle società non occidentali. Le élite politiche e intellettuali di quelle società hanno risposto all’influenza occidentale fondamentalmente in tre modi: rifiutando entrambe (è questo il caso di alcune frange estreme dell’Islam); abbracciando entrambe (posizione incarnata dal kemalismo); abbracciando la prima e rifiutando la seconda. Con buona pace di Stephen Walt, accogliere questo dato storico e riconoscere che diversi approcci hanno sortito diversi effetti sulle rispettive società significa riconoscere il ruolo che Stati e burocrazie hanno storicamente assunto nella definizione dei processi culturali. Trattando del caso cinese, ci concentreremo sulla terza posizione, quella riformista: modernizzarsi senza occidentalizzarsi.
La teoria degli «imprestiti», così come è stata elaborata tra gli altri da Frobenius, Spengler e Bozeman, sottolinea la misura in cui le civiltà destinatarie acquisiscono in modo selettivo determinati aspetti di altre società e li adattano, li trasformano e li assimilano in modo da preservare e rafforzare la sopravvivenza dei valori di fondo, o paideuma, della propria cultura. Quasi tutte le civiltà non occidentali del mondo esistono da almeno un millennio – in alcuni casi da diversi millenni – e tutte vantano un più o meno lungo elenco di acquisizioni, mutuate da altre civiltà e finalizzate alla sopravvivenza della propria. L’importazione cinese del buddismo dall’India, concordano gli studiosi, fu ben lungi dal causare l’«indianizzazione» della Cina. I cinesi adattarono il buddismo ai propri fini e alle proprie necessità. Fino a oggi i cinesi hanno costantemente sconfitto i reiterati tentativi occidentali di convertirli al cristianesimo. Se a un certo punto dovessero importare il cristianesimo, c’è da attendersi che verrà anch’esso assorbito e adattato in modo da rafforzare il sempiterno paideuma cinese (Huntington).
L’approccio riformista della Cina nei confronti dell’Occidente e della modernizzazione è radicato sin dal tempo in cui queste due culture vennero in contatto. Uno slogan famoso delle ultime fasi della dinastia Qing (1644 – 1912) recita «cultura cinese per i principi di fondo, cultura occidentale per i fini pratici». Come non riconoscere nella sintesi unica nel suo genere (e non ancora giunta a termine!) tra socialismo, capitalismo e confucianesimo dell’odierna Cina il proseguo di tale posizione? Stando a quanto ci dice Huntington, nella fase iniziale uno Stato riformatore che vuole innescare un processo di modernizzazione deve anche importare un certo grado occidentalizzazione. Quando il ritmo della modernizzazione aumenta tuttavia, il tasso di occidentalizzazione si riduce e la cultura autoctona torna ad emergere. L’ulteriore modernizzazione della società non occidentale può dunque alimentare il potere e l’autostima di quella società stessa e rafforza in essa il senso di appartenenza alla propria cultura.
E’ nel quadro fin qui tracciato che reputo adeguato valutare il discorso di Hu Jintao. Walt nel suo commento reputa ridicola oltre che inutile la battaglia culturale cinese «Forgive me, but China's leader sounds a lot like a stodgy high school principal trying to stop teenagers from wearing gangsta rap T-shirts, and telling the Music Department to get more kids into the marching band instead. More importantly, this campaign is a losing game». Nonostante io sia assolutamente certo che Walt conosca il testo di Huntington molto meglio di me, gli rimprovero di far finta di ignorare che anche i cinesi leggono i libri di Joseph Nye e sanno cos’è il soft power.
Ho rinsaldato la tesi di Yadav circa l’influenza che gli Stati esercitano nel modellare la cultura della società e chiarito quali sono le ragioni che mi portano a credere che il discorso di Hu Jintao non rappresenti una posizione ridicola. Resta dunque la questione dell’utilità di tale posizione. Credo che i quesiti principali siano due e suonino più o meno così: Pechino è in grado di generare innovazione? I social media non rendono ingovernabili i processi di formazione culturale attuati dallo Stato cinese?
Quanto alla prima domanda credo che Pechino non abbia bisogno di essere sulla frontiere dell’innovazione globale per essere in grado di offrire ottimi prodotti e poter gestire al meglio la formazione culturale della società cinese. Per fare questo basta adattare il meglio di ciò che già esiste ai valori della cultura cinese (ricordate l’importazione del buddismo?). Porto un esempio a mio avviso molto significativo. La Cina è il terzo mercato cinematografico mondiale. Transformer 3 e Kung Fu Panda 2, due film hollywoodiani, lo scorso anno si sono piazzati al primo e al secondo posto nella classifica dei film più gettonati. Il terzo posto è stato occupato invece da The Flowers of War. Quando dico che la Cina non ha bisogno di generare innovazione per fornire ottimi prodotti che incontrino il gusto del pubblico penso proprio a The Flowers of War. Si tratta di una produzione cinese, la prima che ha come protagonista una star di Hollywood (Christian Bale), animata da una trama che ruota attorno al Massacro di Nanchino. Il film è moderno e realizzato in modo tale da incontrare i gusti di un pubblico esigente, al contempo veicola valori della cultura cinese tramite la narrazione di fatti relativi ad un importante avvenimento della storia nazionale. Cultura cinese per i principi di fondo, cultura occidentale per i fini pratici: alla gente il film è piaciuto.
Quanto all’impatto delle nuove tecnologie di comunicazione devo limitarmi ad osservare due cose. E’ vero che allo stato attuale internet è di gran lunga il canale d’informazione meno domabile dalle autorità. Bisogna tuttavia tener presente che Facebook e Twitter non vanno a sostituire i mezzi tradizionali d’informazione bensì si affiancano ad essi. In secondo luogo da uomo del presente e studioso del passato mi ritrovo ad avere su un piatto della bilancia evidenze storiche plurisecolari circa la capacità della Cina di preservarsi mutando, di mantenere saldo il nocciolo duro dei propri valori alla luce di costanti trasformazioni; sull’altro piatto ho invece lo sviluppo di un fenomeno, quello dell’affermazione di internet come canale di comunicazione su scala globale, che ormai nell’opinione comune segna l’inizio di una nuova era in sostanziale rottura rispetto al passato ma che a tutti gli effetti, sotto diversi aspetti politici, deve ancora dimostrare di esser tale.