Le facciate degli istituti penitenziari hanno sempre attirato la mia attenzione con la loro geometria grigia e con la crudeltà delle loro finestre che schermano con grate la visione del mondo dei reclusi.
Nel mio paese avevamo un carcere piccolo, dimesso, che si trovava ai bordi dell’abitato: da una parte dava su una via stretta e dall’altra guardava verso una vallata. Quando ci passavamo davanti mio padre mi diceva spesso che uno dei mestieri piú duri deve essere quello della guardia carceraria, perché uno deve fare il guardiano di esseri umani. Voleva dire che non deve essere un mestiere che si fa senza inquietudini. Ma io coglievo solo – e la prendevo come una verità rivelata che non necessitava approfondimenti – coglievo solo che a volte, anche se si é sicuri di essere dalla parte dei senza macchia e senza peccato, ed ero certa che io e mio padre lo fossimo, non si è mai innocenti del tutto al cospetto di un detenuto.
Quando andai a studiare in città, lì c’era un carcere che guardava al mare, molto piú grande di quello del mio paese. Passavo vicino all’enorme monolito grigio e sbirciavo nei suoi occhi – feritoie con grate da cui sporgevano stracci, scarpe, scope. Scoprí che le aperture non erano occhi – o non solo – ma che potevano essere anche bocche quando i detenuti comunicavano urlando con parenti e amici che stavano fuori, sul lato opposto della strada. Pensavo che forse quelle persone, quelle che stavano fuori, provavano affetto, amore, ossessione, desiderio sessuale e desiderio di prendersi cura di persone che stavano dentro. Lì nel monolito grigio avevano un pezzo di cuore o lo stesso sangue, e forse a volte si sentivano come se qualcuno gli stesse strappando un braccio – come ci sentiamo tutti quando non possiamo toccare chi amiamo.
Adesso vivo per buona parte dell’anno in una piccola città d’Europa, in una terra che ha sofferto la malattia del terrorismo e dove sino a dieci anni fa non venivano i turisti perché avevano paura delle bombe. Una terra dove adesso i turisti vengono, ma che ancora soffre, sommessamente, per i figli perduti: i figli vittime e i figli carnefici.
Ieri mentre attraversavo la piazza della Vergine Bianca ho riprovato la sensazione che seguiva alle parole che mio padre mi diceva sul mestiere del guardiacarcere.
Ogni venerdí verso le sette e mezzo di sera compare un cerchio di persone strette le une alle altre che sorreggono cartelli bianchi con scritte nere e li tengono bassi, all’altezza dei fianchi. Non li vedo mai arrivare e non li vedo mai andar via. Di solito, diretta da qualche parte, sbuco dalla via del centro storico dove vivo e loro sono già lì. Aggiro il cerchio a distanza perchè emana un silenzio denso che si impone sul brusio del venerdì sera e che mi incute rispetto. Ma ieri, al vederli, ho rallentato e mi sono quasi fermata. Pioveva molto forte, erano meno del solito e formavano un manto spelacchiato di ombrelli, stavano larghi per approfittare delle spiovenze degli edifici intorno e ripararsi dalla pioggia. Quel silenzio denso si sentiva lo stesso, ed era all’unisono col rumore dell’acqua. Ripetevano senza parole quello che chiedono da anni sempre di venerdí e sempre alla stessa ora: che i figli carnefici siano trasferiti dalle carceri lontane dove sono rinchiusi – per una legislazione speciale che li tratta diversamente dagli altri detenuti – a carceri vicine alle loro famiglie.
Ho pensato che oltre a integralisti della causa, a ragazzi dei centri sociali e ad adolescenti confusi, sotto quegli ombrelli ci dovevano essere anche madri, padri, fratelli, innamorate, figli, migliori amici. Si capiva da come erano capaci di stare fermi e in silenzio nel brusio del venerdì sera e da come il silenzio suonava in accordo con la pioggia. Non mi sono fermata, ma camminando verso casa, mentre mi guardavo i piedi che pestavano l’acqua e pensavo al mantello spelacchiato di ombrelli che copriva la piazza, ho capito perchè non mi sono mai sentita innocente quando passavo davanti a un carcere: basta nascere in un altro momento o in un altro posto o sotto un’altra stella per non essere fuori e neanche dentro, ma metà dentro e metà fuori, dal carcere.