Los Angeles. Edward Lewis (Richard Gere), disinvolto affarista, abbandona uno dei tanti party frequentati da gente a lui simile e, visto che la limousine è bloccata nel parcheggio, prende in prestito la Lotus Esprit del suo avvocato Philip (Jason Alexander).
Su e giù lungo l’ Hollywood Boulevard, dove sogni dorati e grigia realtà si scontrano ogni giorno, a disagio col cambio manuale e dotato di un senso dell’orientamento non propriamente simile a quello di un piccione viaggiatore, Edward ha ormai perso le speranze di poter raggiungere la sua dimora, il Beverly Regent Wilschire, quando ottiene un aiuto inaspettato, per quanto dietro congruo compenso, da parte di Vivian (Julia Roberts), ragazza di vita come si diceva un tempo, che insieme alla collega Kit (Laura Sangiacomo), batte lungo il citato Boulevard (nella zona che va da Bob Hope ad Ella Fitzgerald).
Julia Roberts (Movieplayer)
I modi di fare della graziosa fanciulla, un singolare mix di spontaneità e stupore, quest’ultimo dal vago retaggio infantile, così in contrasto con la disinvolta mise, renderanno lo scafato Edward quantomeno incuriosito, se non attratto, tanto da chiederle di restare con lui dapprima per tutta la notte e, al mattino, per l’intera settimana che dovrà trascorrere in città.
Un grosso affare per Vivian, che sarà presto indirizzata verso l’etichetta e le buone maniere dal direttore dell’albergo, Thompson (Hector Olizondo), così da trovarsi a suo agio, con qualche adattamento, nei vari luoghi dove Edward, ormai incline a smussare molti lati del suo carattere, la porterà con sé (dalla cena d’affari alla partita di polo, senza dimenticare il Metropolitan di New York, per assistere, ça va sans dire, alla rappresentazione della Traviata). Un piede sulle nuvole della favola e l’altro saldo a terra, sarà una bella lotta fino al trionfo dell’happy end…
Richard Gere e Roberts
Classica commedia americana nei suoi stilemi complessivi (un po’ sophisticated, un po’ screwball, volendo fare i sofistici), aggiornata agli anni ’90, Pretty Woman ad avviso di chi scrive si rivela, anche ad una ripetuta visione, un film più che gradevole, in primo luogo per il piglio sicuro offerto da Garry Marshall, regista piuttosto attento alla valorizzazione interpretativa tanto di ogni singolo protagonista (se Richard Gere è una sempre piacevole conferma, qui più disinvolto ed ironico, la vera sorpresa è Julia Roberts, al suo lancio, che domina ogni scena con notevole tempra ed eleganza, un naturale sex-appeal ed un sorriso che è pura grazia di Dio), quanto di validi comprimari come Helizondo, novello Pigmalione. Tale riferimento all’opera di George Bernard Shaw (ispirata al mito tramandato da Ovidio) non è certo casuale, visto che la sceneggiatura di J.F. Lawton, secondo motivo di merito, pregna di dialoghi brillanti e battute che non si dimenticano, ne riprende alcuni elementi portanti, attingendo inoltre dalla classica favola (Cenerentola) e da film come Sabrina (Billy Wilder, 1954).
Il lato prettamente romantico di cui Pretty Woman è soffuso e che a volte può anche apparire vagamente zuccheroso, non deve però far dimenticare, sempre a mio parere, anche una certa portanza simbolica, da valutare in base all’anno di uscita. Una volta, infatti, che l’edonismo reaganiano si avviava verso il viale del tramonto, faceva ritorno il “sogno americano” più puro e semplice, la capacità di fare leva sulle personali aspirazioni per dar vita ed aspettativa concreta alle proprie speranze, la possibilità di una vita diversa se non migliore, mitigando l’individualismo con la solidarietà sociale, nella comprensione e condivisione di determinati ideali dal sapore “antico”. Esemplare al riguardo la riflessione di Edward rivolta al suo spregevole contraltare Philip, incapace di accettare una qualsiasi realtà che non sia quella del mero profitto, “noi non costruiamo un bel niente”, prima di stringere alleanza con l’industriale (Ralph Bellamy) cui voleva smembrare la società e rivendere le singole parti a più azionisti.Hector Olizondo
E’ il ritorno ad un capitalismo dal sapore originario, patriarcale, volto, almeno nelle intenzioni, ad un benessere non solo del singolo ma anche della collettività.
La stessa aura sentimentale appare portatrice di una sapidità “vecchio stile”, non più mordaci e fugaci rapporti, ma qualcosa di concreto, pur in un assunto favolistico, una sorta di reciproco svezzamento alla vita caratterizzato dalla reciprocità e scambiabilità dei ruoli. Volendo trovarvi dei difetti, restano evidenti, pur nell’ovattata fotografia (Charles Minsky) e nella cupola protettiva della memorabile colonna sonora, rimaneggiamenti (confermati di recente) in fase di scrittura volti ad assecondare, con qualche contraddizione (alla fine, volendo dare una spruzzata di cinismo, se il denaro non dà la felicità qualche problema in meno lo offre, anche a livello di pura apparenza), l’impostazione ottimistica da “buona favola”.
(Movieplayer)
Infatti, se, come notato da altri, la prima parte, almeno fino al ravvedimento di Edward, è più veloce e brillante, in seguito lo svolgimento narrativo appare più “composto”, impostato verso il classico, verrebbe da dire inevitabile, lieto fine. Nulla che possa comunque togliere fascino e valenza complessiva ad una pellicola capace sempre di solleticarti il cuore, regalandoti per circa due ore la piacevole illusione che avere un sogno, di qualunque portata, e credere in esso, ti renda possibile parare il colpo di ogni tegola che, più o meno quotidianamente, potrebbe arrivarti in testa. Certo, la realtà è ad un giro d’isolato, come si suole dire, l’importante è esserne consapevoli, pur non dimenticando quanto asseriva Edgar Allan Poe, coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte.