Orgoglio è avere stima di sé, della propria dignità, della propria personalità. È nella nostra natura umana rivendicare per orgoglio, urlare la propria rabbia contro il disagio dell’ingiustizia, coscienti di sé. Contro natura è invece chi rinnega l’orgoglio dell’essere umano terrestre, unica appartenenza irrinunciabile per quel che mi riguarda. Quanto ci costa! Cos’altro in suo nome?
Quando nel 1984, durante il ben noto sciopero dei minatori contro il governo Thatcher un gruppo di attivisti gay decide di raccogliere fondi per aiutare gli scioperanti della valle di Dulais nel Galles del Sud, si creano le basi per ridefinire il senso o dare un nuovo senso all’essere comunità, in netta contrapposizione con la celebrazione dell’individualismo esasperato in gran voga negli anni di regno Reagan Thatcher.
I membri del Lesbians and Gays Support the Miners raccoglieranno undicimila sterline e compreranno un minibus: poco, molto, che importa? La solidarietà è rivoluzionaria e crea incontri tra culture differenti, sempre.
Delicata è la rappresentazione di frammenti di vita che evidenziano il disincanto, di tutti; sia quello degli sprovveduti gay londinesi che dalle periferie e dai locali puzzolenti della metropoli decidono di partire per il Galles e sfruttare a loro vantaggio la chance della visibilità in una battaglia nell’occhio del ciclone mediatico, sia quello degli onesti minatori, omofobi per (cattiva) educazione ma tutti dall’orgoglio intatto e la disillusione dietro l’angolo.
Un disincanto che forse è stato perduto per sempre insieme all’innocenza.
Saranno alcuni di questi lavoratori, anime alle deriva nell’eterna periferia di questo nostro mondo, a riconoscere che la loro lotta è simile a quella degli omosessuali e l’unione tra pionieri della disillusione inevitabile.
La realtà trattata è cruda, parla di miserie, eppure il rischio di scivolare nel patetico è continuamente evitato grazie alla disperata vitalità dei personaggi che qua e là sfoggiano sprazzi di follia collettiva da musical americano facilmente perdonabili per la semplice ragione che il finale (storicamente) è noto: sappiamo che in Inghilterra siamo ormai quasi in equal rights, dunque il regista può permettersi di edulcorare l’amara pillola della realtà di allora senza essere tacciato di buonismo a costo zero.
In anni in cui tutto è immediato e dimenticabile, è un obbligo evitare il rischio dell’oblio, a qualsiasi costo.
Il film ha il pudore della leggerezza dunque, e della dolcezza dei piccoli atti che fanno bene al cuore è ricco il film, posto che non di un cardiotonico ma di sussulti e palpiti ha bisogno il mio cuore per sentirsi vivo, per cui una miniera di cinismo e cattiveria in più l’avrei gradita anche perché gli attori, deliziosi, l’avrebbero meritata, Imelda Staunton, attrice di razza, su tutti.
Carlo Camboni
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 22 – Marzo 2015.
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