Continuo a guardare filmati dal terremoto giapponese e di conseguenza a farmi domande sul perché non riesca a smettere. La più ovvia riguarda il fascino che tutta quella devastazione racchiude, l'orrore che risplende e le reminiscenze del cinema catastrofico: ma non c'è risposta al fascino dell'orrore, solo un'impotenza innamorata e colpevole. Semmai, provo a dare una risposta all'ossessione del prima e dopo che vedo nelle gallerie di Repubblica. Questo è quello che c'era prima, questo quello che c'è ora; là dove c'era l'erba, ora c'è il fango, là dove c'era una città, magari tra qualche anno, bonificato il terreno, ci sarà di nuovo l'erba. In mezzo, tra le foto del prima e quelle del dopo, l'immagine mancante, l'immagine che continuiamo a vedere e cercare, quella che cattura il momento dell'arrivo dell'onda e provoca uno shock dell'anima prima che degli occhi. So bene cosa manca lì in mezzo per rendermi soddisfatto fino in fondo; so bene che tutto ciò che ho visto fino a ora è il riflesso di un'assenza, di un rimosso. So bene che se tra il prima e il dopo vedessi delle persone travolte dall'onda, assaporando così il sapore della morte in diretta, la mia bulimia da immagini sarebbe appagata. Le immagini del prima e del dopo aggirano questo folle desiderio, lo evocano senza chiamarlo direttamente in causa. Lo dice anche Roth in Il complotto contro l'America, che sono i vestiti abbandonati nelle case, le valigie dimenticate sul selciato della stazione, a dare il senso di un olocausto. E lo fa vedere Spielberg in La guerra dei mondi, che sono ancora i vestiti lasciati a colare sugli alberi, segno fisico di una morte che ha cancellato il corpo, a racchiudere l'orrore della sparizione. Qui siamo alle prese con lo stesso sentimento: una sparizione che sta tra un prima e un dopo, che vediamo e continuiamo a vedere, ma che non finirà mai di affamarci fino a quando non vedremo per davvero quei cadaveri sulle spiagge.
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Continuo a guardare filmati dal terremoto giapponese e di conseguenza a farmi domande sul perché non riesca a smettere. La più ovvia riguarda il fascino che tutta quella devastazione racchiude, l'orrore che risplende e le reminiscenze del cinema catastrofico: ma non c'è risposta al fascino dell'orrore, solo un'impotenza innamorata e colpevole. Semmai, provo a dare una risposta all'ossessione del prima e dopo che vedo nelle gallerie di Repubblica. Questo è quello che c'era prima, questo quello che c'è ora; là dove c'era l'erba, ora c'è il fango, là dove c'era una città, magari tra qualche anno, bonificato il terreno, ci sarà di nuovo l'erba. In mezzo, tra le foto del prima e quelle del dopo, l'immagine mancante, l'immagine che continuiamo a vedere e cercare, quella che cattura il momento dell'arrivo dell'onda e provoca uno shock dell'anima prima che degli occhi. So bene cosa manca lì in mezzo per rendermi soddisfatto fino in fondo; so bene che tutto ciò che ho visto fino a ora è il riflesso di un'assenza, di un rimosso. So bene che se tra il prima e il dopo vedessi delle persone travolte dall'onda, assaporando così il sapore della morte in diretta, la mia bulimia da immagini sarebbe appagata. Le immagini del prima e del dopo aggirano questo folle desiderio, lo evocano senza chiamarlo direttamente in causa. Lo dice anche Roth in Il complotto contro l'America, che sono i vestiti abbandonati nelle case, le valigie dimenticate sul selciato della stazione, a dare il senso di un olocausto. E lo fa vedere Spielberg in La guerra dei mondi, che sono ancora i vestiti lasciati a colare sugli alberi, segno fisico di una morte che ha cancellato il corpo, a racchiudere l'orrore della sparizione. Qui siamo alle prese con lo stesso sentimento: una sparizione che sta tra un prima e un dopo, che vediamo e continuiamo a vedere, ma che non finirà mai di affamarci fino a quando non vedremo per davvero quei cadaveri sulle spiagge.
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