di Rina Brundu. A scanso di equivoci meglio chiarire subito: lo spettro in questione non ha nulla a che spartire con quello nobile del comunismo che in un tempo molto distante da noi si aggirava per l’Europa. Meno che meno ha a che vedere con Marx. Piuttosto ricorda lo spettro dickensiano dei Natali futuri. Meglio ancora, lo spettro del PD proiettato verso il domani che avrebbe potuto essere se la nomenklatura non avesse chiuso i ranghi, richiamato all’ordine, ingabbiato le primarie dentro regole asfittiche, gattopardiche nella loro essenza, e se il figliolo-ribelle non avesse mancato del coraggio necessario per trasformare l’ottima dottrina-rottamante, l’ideale “perestrojka” all’incontrario in virtù della quale aveva iniziato la sua personalissima “marcia del sale” in una vera occasione di lotta politica.
A questo proposito, debbo onestamente dire non mi è ancora chiaro come intenda la lotta politica Matteo Renzi. A giudicare da ciò che si è visto in questi giorni sembrerebbe che la intenda in maniera molto differente da quella che comportava anche il sacrificio delle due o tre “scazzottate all’alba”, in perfetto stile Peppone-contro-Peppone. Detto altrimenti, va benissimo il “saper perdere” (fermo restando che una tal esperienza per la sinistra italica non dovrebbe essere proprio nuova), ma di tanto in tanto sarebbe opportuno mostrare anche come si fa a vincere. Il problema è che se Renzi continua con la sua genuflessione davanti al vincitore, non solo la sua esperienza-rottamatrice diventerà presto, molto presto, vago ricordo, ma si metterà pure a perfetto tiro per ricevere un metaforico calcio nelle parti basse capace di spazzarlo completamente via dal “cortiletto” che conta.
Una delle conseguenze più nefaste del risultato delle Primarie PD di ieri - come giustamente scriveva quest’oggi qualcuno in un noto blog televisivo italiano – è che se Bersani ha vinto, Renzi ha perso, Bindi, D’Alema (ma non solo loro, aggiungo io), pareggiano. Detto altrimenti, la nomenklatura, fermamente sostenuta da quell’intellettualismo ossimorico e obsoleto che è prima di tutto affermazione dell’idea (mia-nostra) sulle idee (altre-altrui), continua a campare. Come prima e più di prima. Guardando alla macro-picture, per molti versi, il risultato delle primarie è quasi uno schiaffo in faccia alle ragioni più nobili che ci fanno “sopportare” con una data dignità la corrente crisi strisciante. È un poco come se tutto il marcio che è venuto fuori negli ultimi venti mesi non avesse né padri né padrini, un poco come se il fallimento assodato di una intera generazione politica fosse diventato il necessario lasciapassare per traghettarci verso un futuro che è tragico specchio del suo tristo passato. Ed è un poco come se quel fallimento si riproponesse davanti a noi rivestito di tutto punto, ripulito, rigenerato dalla ritrovata verginità garantita a piene mani da una Stampa ammaestrata e compiacente.
Insomma, è un poco come se in questo Paese affamato, martoriato, avvilito, impedito, depresso, abbacchiato, sconfortato, umiliato, non fosse successo nulla. Non si fosse imparato nulla. Basti pensare anche solo e soltanto alla nuova legittimità che la vittoria del Bersani-sornione ha già dato al reinventarsi senza-pace berlusconiano, o all’essenza stessa delle nuove trame casiniane che già si intessono nottetempo per garantire eterna esistenza al “suo” oramai mitico centro. Il grande centro. Il grande centro che è soprattutto un grande vuoto. Un black hole. Un buco nero senza spazio e senza tempo. Dal quale se non sfugge la luce è molto improbabile che possano sfuggire le poche certezze o i molti abbagli (soprattutto politico-mediatici) del Signor Rossi qualunque… Che a riassumere con il Gramsci più scolastico ci si vergogna quasi e, tuttavia, there is no other way out: “L’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva, la storia insegna, ma non ha scolari”. Avanti popolo alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa… O quasi!
Featured image, Mihail Gorbačëv, fonte Wikipedia.
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