E’ impressionante notare come le proteste più grandi e diffuse, quelle in grado davvero di interrompere l’inerzia di uno status quo, nascano spesso da episodi minori, dalle azioni di singoli uomini o da mobilitazioni inizialmente confinate in luoghi circoscritti. Si pensi alla Primavera araba, partita dall’autoimmolazione del giovane tunisino Mohamed Bouazizi.
In Bosnia sta forse accadendo qualcosa di simile. Il 5 febbraio a Tuzla, la terza città del paese e principale polo industriale, centinaia di operai scendono in strada per manifestare contro la chiusura di quattro industrie privatizzate nel corso degli anni Duemila e fino a ieri principale fonte di reddito per la città e per la sua popolazione. Organizzata via Facebook e partita come un raduno pacifico (agli operai si sono aggiunti disoccupati, ma anche studenti e gente comune in segno di solidarietà), la manifestazione degenera poi in violenti scontri con la polizia.
In poche ore le proteste subiscono brusca accelerazione, arrivando a contagiare un po’ tutti e dieci i cantoni in cui è suddivisa la Federazione di Bosnia-Erzegovina (una delle due entità in cui è suddivisa la Bosnia-Erzegovina; l’altra è la Republika Srpska). In cinque di essi le sedi cantonali vengono danneggiate (sebbene questi episodi vengano enfatizzati oltremisura dalla stampa; più avanti vedremo perché), costringendo le autorità ad evacuare quasi tutti i principali edifici istituzionali. In totale si svolgono manifestazioni in più di 30 città. Il dato più interessante è che tutto avviene senza alcun coordinamento né a livello locale, né tanto meno nazionale – l’unica eccezione è Tuzla, dove i manifestanti rendono nota una lista di richieste. Solo nei giorni successivi I dimostranti iniziano ad organizzarsi intorno a dei forum civici nei diversi centri coinvolti dalle proteste. Alcuni portali, come Bosnia-Herzegovina Protest Files, sono stati creati ex novo per pubblicare le richieste dei dimostranti.
Non chiamatela primavera
Inevitabilmente, ogni volta che in Bosnia succede qualcosa si cerca sempre una chiave di lettura etnica. Sui muri di Tuzla, invece, nei primi giorni delle proteste gli operai hanno scritto “Dimissioni! Morte al nazionalismo!”. Ciò non deve stupire: Tuzla è stata l’unica città del Paese a mantenere un sindaco non-nazionalista in tutto il dopoguerra. Durante le manifestazioni, inoltre, sono stati presi di mira anzitutto i cantoni, cioè le 10 “province” in cui è divisa la Federazione di Bosnia Erzegovina, considerati il simbolo dell’inefficienza e della corruzione in cui versa il Paese. Due importanti segnali del carattere non-etnico delle proteste.
Al di là delle violenze, dei disordini, dei saccheggi portati avanti soprattutto da parte di persone giovanissime, la protesta pare dunque presentarsi come politica. Le mobilitazioni, infatti, portano alle dimissioni dei primi ministri dei cantoni di Tuzla, Sarajevo, Mostar e Bihać, del responsabile della sicurezza nella capitale, Himzo Selimović, senza fermarsi nemmeno in seguito al rilascio della maggior parte dei dimostranti arrestati nei giorni precedenti. La nozione di “primavera bosniaca” comincia a diffondersi. Ma è davvero così? Siamo di fronte ad una vera rivoluzione nel cuore dei Balcani?
Al momento l’unica certezza è che la protesta coinvolge solo metà del Paese. Le rivolte sono infatti scoppiate in città (come Tuzla, appunto) dove la popolazione è in larga misura bosgnacca, con l’unica eccezione di Mostar, dove i croati sono in lieve maggioranza. Ma in ogni caso sempre all’interno della Federazione di BiH. Nella parte serba del Paese (la Republika Srpska) non è successo nulla di particolare. A Prijedor e Bijeljina, anzi, le pur blande manifestazioni sono state accompagnate da contro manifestazioni di sostegno al governo, con qualche coro che inneggiava a Ratko Mladić. Anche il presidente della RS, Milorad Dodik, sostiene che le proteste sono un fenomeno bosgnacco (musulmano) il cui vero obiettivo è quello di destabilizzare l’entità serba. Come si fa allora a chiamarla rivoluzione? Se primavera sarà, interesserà solo la parte croato-musulmana. Può darsi che anche nel versante serbo qualcosa si smuova, ma attualmente lo scenario è questo.
Se guardiamo bene, scopriamo che l’elemento scatenante delle proteste non è politico, ma economico. Il Paese è in recessione, come pure il resto dei Balcani. La disoccupazione ufficiale si attesta sul 25%, stima al ribasso secondo alcuni analisti, con tassi che lambirebbero il 60% tra i giovani. Una situazione aggravata dallo stallo politico, con gli organi di governo incapaci di promuovere le riforme necessarie per ridare fiato ad un’economia esausta. Negli anni la politica si è preoccupata solo di privatizzare le grandi aziende statali secondo modalità spesso opache e mai a vantaggio dei lavoratori. Non è una sorpresa che tutto sia iniziato a Tuzla, ieri uno tra i maggiori poli industriali in Jugoslavia e oggi deserto industriale della Bosnia.
E non è una sorpresa neppure che alcuni osservatori bene informati (come Matteo Tacconi, esperto di Europa dell’Est e Stefano Giantin, collaboratore del Piccolo di stanza a Belgrado) intravedono una regia politica dietro le manifestazioni, magari legata al tentativo di marginalizzare i partiti tradizionali nelle prossime elezioni di ottobre. L’idea che qualcuno stia cercando di strumentalizzare gli eventi sembra avvalorata dalle tante, troppe discordanze tra la versione offerta dai media ufficiali e quella canalizzata tramite i social network. Come se una sorta di “fronte unito” tra media e partiti stia cercando di orientare l’opinione pubblica contro i manifestanti, incanalando la questione verso problemi più facili da usare in campagna elettorale.
Verso la fine del sistema di Dayton?
Economia a parte, oggi il problema principale della Bosnia è la sua suddivisione interna, l’essere un mostro a due teste così come gli Accordi di Dayton l’hanno concepita. Il sistema di Dayton, nato dalla contingenza di fermare la guerra, non funziona più essenzialmente per tre motivi. In primo luogo perché lo stesso Richard Holbrooke, suo artefice, lo aveva ideato per tamponare l’emergenza, tanto che nel primo decennale degli accordi confidò che non avrebbe mai pensato potesse durare così a lungo. In secondo luogo perché la partizione in due entità (e nel caso della BiH, in altre dieci) ha creato una burocrazia elefantiaca che rallenta e appesantisce la vita politica del Paese. Infine perché la Costituzione nata in base agli Accordi è in palese contrasto con la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, poiché antepone i diritti dei gruppi etnici a quelli dei singoli cittadini, ed è il motivo per cui il percorso di integrazione europea della Bosnia Erzegovina si sta rivelando lungo e tortuoso. Pertanto, più che di una primavera bosniaca sarebbe corretto parlare di un autunno di Dayton, del tramonto di un sistema destinato a non durare – benché non sia ancora chiaro quale alternativa sia possibile.
Quella bosniaca è dunque una crisi di sistema. Da un lato le aberrazioni prodotte da Dayton, dall’altro l’autorefenzialità di una classe dirigente corrotta, incapace di rispondere ai bisogni del Paese e che quando si sente sotto pressione sacrifica tutto sull’altare dei nazionalismi. Il sistema istituzionale ideato da Holbrooke è andato in cortocircuito, e la stagnazione economica ha fatto il resto. Per questo le elezioni anticipate, opzione offerta dal Governo per far cessare le proteste, non sono viste come una soluzione: si basano su un sistema che è fermamente ancorato allo status quo, e in ogni caso la metà degli elettori non partecipa. Così come oggi metà del Paese – quella serba – non partecipa al tentativo di sollevazione.
L’unica volta in cui l’indignazione popolare ha unito le popolazioni delle due entità, superando confini etnici e politici, e stato durante la cosiddetta beboluzione della scorsa estate, quando i cittadini, con tanto di assedio dei deputati all’intero del Parlamento, hanno dato vita ad una mobilitazione popolare che sembrava davvero poter imprimere una svolta alla storia politica del Paese. Invece tutto è sfumato nel giro di poche settimane, riconsegnando la società bosniaca all’indolenza di sempre.
Per concludere, lasciamo spazio alle parole di Zlatko Dizdarević, ex giornalista del quotidiano bosniaco Oslobođenje, ex ambasciatore di Bosnia ed Erzegovina in Croazia, che in questo post (tradotto da East Journal) esprime tutta la rabbia e l’indignazione della gente di fronte allo spettro di un futuro rubato:
è una generazione che ha iniziato a scavare nei bidoni della spazzatura non perché un uragano, un’alluvione o terremoto hanno raso tutto al suolo, ma perché dei ladri hanno rapinato questo paese e riempito le proprie tasche delle sue ricchezze. Nel nome della nazione, dell’etnia, della fede e di una guerra incompiuta.
E ancora:
Nei luoghi dove si è compiuto il caos, detto banalmente, non c’è Stato capace di confrontarsi con tale caos. E non c’è perché esistono due modelli di ruberia e criminalità, oggettivamente sostenuti a livello internazionale. Uno è l’inesistenza dello Stato dove quindi i potenti criminali possono fare come più gli aggrada. Questo si chiama Federazione BiH, entità. L’altro è uno Stato rubato da un comandante, totalitarista, che ha venduto con successo il nazionalismosotto le vesti del populismo, ha tagliato i ponti col resto dello “Stato” e tiene le cose in proprio pugno. Per ora. Quest’altro si chiama Republika Srpska, entità.
* Articolo originariamente comparso su The Fielder