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Primitivo di Manduria: il vino dei deliri estivi

Da Maurov

Primitivo di Manduria: il vino dei deliri estivi

Ogni tavola vuole un vino. Così come ogni tavola ha il suo cibo privilegiato. In quella della mia casa ad esempio non mancava mai il pane. La cucina salentina lo pretende. Il peso medio per ogni pezzo di pane è almeno un chilo, scorza scura e mollica appetitosa, corposa. In genere è un pane di grano duro o misto di semola. Vivo in Romagna e non riesco a farmi capire quando parlo di questo pane. Nel regno della piadina, del resto, è pressoché impossibile.

Siamo ancora nella stagione degli ortaggi virili: pomodori, melanzane, peperoni e peperoncini piccanti. Se ti invitassi a cena in questo periodo il menu sarebbe all’incirca questo: antipasti  di melanzane fritte, con pecorino fresco, pomodorini tagliati e insaporiti con olio, origano e un pochino di pepe e pane raffermo fatto a bruschetta. Per primo, pennette o fusilli saltati con pomodori, melanzane e peperone piccante insaporite con basilico e origano come se piovesse. E se ci fosse spazio per il secondo, involtini di melanzane ripiene di scamorza affumicata e prosciutto cotto, su un prezioso letto di salvia che ha il rosmarino per cuscino.

Veniamo al vino. Il mio ospite non s’offenderà se ci mettiamo un vino pugliese, perché, che volete? su un pasto così ci vuole il vino partorito da madre Terra rossa e padre Sole. Il Primitivo di Manduria. Un vino che in inverno scuote il corpo dal freddo e d’estate fa la ronda attorno alla città dei sensi.

Anche qui la storia che vi racconto è intrisa di componenti fortemente erotiche.

Un’estate di un bel po’ di anni fa il caldo fece davvero smaniare e delirare il Salento. A camminare scalzi si poteva sentire sotto i piedi il calore dei pavimenti, dormendo pareva di stare sulla sabbia delle 2 del pomeriggio, l’acqua delle tubature come uscita dallo scaldabagno. Per mangiare come si fa? Mi chiesi. La rovente giornata aveva scatenato pigrizia e ritrosia verso l’arte della cucina. Ma di fame ne avevamo parecchia. Così decidemmo di apparecchiare per terra sulla loggia, seduti come ad un pic-nic. All’una di notte. La cosa più nobile erano i due calici dipinti di rosso per metà, rievocanti porpora nella notte di agosto. Senza posate, senza piatti: pane, melanzane fritte, pomodori freschi, basilico a mazzi, pecorino fresco, olive nere, peperoni piccanti fritti e primitivo. Mangiare era faticoso pure a quell’ora, ma chi ce la faceva a fermarsi? Quel vino sembrava cantare una nenia tarantolata, più bevevamo più si scatenava una danza dentro la testa.

Più respiravamo quel sapore, maggiore era il cicaleggio che sentivamo. Non rimase che aspettare l’alba per godersi il fresco del mare, a quell’ora bianco. Avevamo digerito? Decidemmo di prendere prima un caffè. Per vizio del palato, più che altro. Per dire buongiorno a quel regno visionario che è il mare del basso Adriatico.


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