Magazine Cinema
di Hayao Miyazaki
Giappone 1997
genere, animazione
durata, 133'
“Il destino non si può cambiare. Si può scegliere pero’ se aspettare che esso si compia o andargli incontro a viso aperto”. L’eco di parole come queste – evocative quanto solenni – risuona chiaro, nonostante siano trascorsi oltre tre lustri dalla sua prima vibrazione, all’interno della vicenda che intreccia le esistenze di Ashitaka – giovane di nobile stirpe, infettato da un demone-cinghiale – e San – “principessa degli spettri” (Mononoke, più o meno), cresciuta dai lupi delle montagne, ardimentosa e selvatica – sullo sfondo dell’eterno contrasto fra Natura e Cultura impersonato qui da un’antica foresta sede di dei e di spiriti e dalla “Città del Ferro” che, per prosperare, della foresta non fa che nutrirsi, nel lungometraggio “Principessa Mononoke” di Miyazaki Hayao, riproposto adesso in una nuova edizione maggiormente fedele all’originale (curata da Giorgio Nardoni e Gualtiero Cannarsi), verso la quale, nello sforzo di progressiva approssimazione al mondo poetico del regista giapponese, e’ logico mostrare giusta indulgenza per un fraseggio qua e la’ innaturalmente elaborato o, per contro, stringatamente capzioso (dettaglio che, alla lunga, potrebbe disorientare gli spettatori piccoli e piccolissimi già impegnati dagli sviluppi di un racconto piuttosto articolato).
Ritroviamo comunque, con “Principessa Mononoke”, innanzitutto e come sovente in Miyazaki, la “pedagogia del viaggio”, strumento polivalente in grado di lavorare su più livelli: come cesura delle abitudini e abbandono dei luoghi conosciuti; apertura al mondo e banco di prova del carattere. E come diario intimo, costruito per sovrapposizione di pensiero e azione sul percorso imprevedibile della crescita interiore. Quindi, momenti di un passato lontano, quelli del Giappone del periodo Muromachi – a cavallo dei secoli XIV e XV – durante il quale il lento ma progressivo affievolirsi dell’autorità shogunale consente persino la possibilità di “esperimenti sociali” sorprendenti se contestualizzati al periodo e alla mentalità dominante, ad esempio quello che prevede un ruolo tutt’altro che subalterno per la figura femminile. E, a permeare l’intera opera, il lungo e leggero respiro shintoista – espanso dalle partiture ora trascinanti ora malinconiche di Hisaishi – che aleggia attorno ai personaggi, alla loro marzialita’ irrequieta, e agli ambienti, alimentando di continuo la contraddizione tra psicologie umane spesso succubi delle proprie debolezze e l’inestinguibile spinta delle energie ancestrali alla ricomposizione e all’armonia, senza mai ignorare, d’altro canto, le crudezze del presente, l’odore permanente del sangue, e il sentimento pessimista che esso ispira, nonché i mostri o i demoni che esso scatena.
Tutto convogliato in una struttura narrativa complessa, sovente dilatata nei tempi (quindi non esente da qualche lungaggine) – in ogni caso percorsa da un aspro romanticismo, da una sorta di ribelle cupezza quand’anche d’enigmatica imponderabilità (il mutismo allusivo nello sguardo fisso di demoni e dei), che ne insidia anche gl’istanti più lieti e lirici, a ribadire che ogni ordine si
fonda sulla tregua malcerta fra potenziali catastrofi – e restituita per mezzo di immagini che abbinano mirabilmente dedizione artigianale (oltre centoquarantamila sono i disegni a mano, integrati poi alla CG), sensibilità pittorica (non solo giapponese: per dire, l’orditura capricciosa dei viluppi di fiori e cespugli; la trama degli alberi, i rami, le concrezioni dei muschi sui tronchi, mostrano una qual inclinazione impressionista) e tecnica cinematografica (campi lunghi, movimenti laterali, panoramiche, non sono scelte episodiche), per un insieme che ancora, a distanza di anni, riesce a dialogare fitto con taluni pensieri riposti e ambivalenti, oltreché col meraviglioso.
TFK
(pubblicato su dreamingcinema.it)
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