Capitolo fondamentale dell’evoluzione del thriller o, meglio, di come il thriller possa ancora essere d’autore nella stessa maniera in cui lo sono stati Se7ven, Zodiac, Mystic River, Memories of Murder o la Red Riding Trilogy, Prisoners è sostanzialmente un meccanismo perfetto nel suo fascino maligno e nel suo spargere semi stranissimi che raccoglierà poi con un’eleganza raramente vista altrove, è la consacrazione di un regista dal talento smisurato che può finalmente disporre della giusta visibilità che gli eviti soltanto un certo ricavo glorioso di certa critica.
Quanto assembla Aaron Guzikowski è un mosaico straniante e spiazzante, quasi da non credere che lo sceneggiatore spunti praticamente dal nulla con il precedente e trascurabile Contraband, e Denis Villeneuve lo stende e lo solidifica sfiorando l’horror con atmosfere raggelanti e immagini dal fortissimo impatto, tra labirinti disegnati sui muri e caverne a cui si accede da porte nascoste si potrebbe quasi scomodare Lovecraft per impiego di certi elementi perturbanti, ma non serve disturbare chissà quale immaginario quando la potenza narrativa di Prisoners è un carro armato che lentamente travolge ogni cosa: meticolosamente strutturato, ben ponderato nel dosare il dramma senza mai farlo pesare per facili patetismi sentimentali, l’intreccio nasconde bene i suoi risvolti rivelatori con una progressione di eventi che tiene incollati per ben due ore e mezza negando di fatto qualsiasi peso dovuto non solo alla lunga durata ma anche a un’impostazione ragionata e attenta, dove l’azione è meravigliosamente assente in favore di dubbi, sospetti, dolore, tenacia e personale rassegnazione, elementi che Villeneuve rende vivi e terribili tanto nell’ostinazione di Keller (un Hugh Jackman forse per la prima volta davvero bravo) nel perseguire la sua vendetta/verità, quando nella sottile decisione con cui il detective Loki (un come sempre straordinario Jake Gyllenhaal) non demorde di fronte al puzzle inestricabile che si (s)compone di giorno in giorno.
Difficile rappresentare meglio il dibattito interiore di Keller, le lunghe sessioni nell’edificio abbandonato in compagnia del suo presunto rapitore delle due bambine sono momenti di profonda tragedia visiva/psicologica, vederlo urlare e sfoderare una rabbia dovuta a un retaggio culturale che Villeneuve, da bravo canadese e attento osservatore, mette bene in mostra commuove nel momento in cui la ragione lo interroga e lo torce di fronte all’inefficace giustizia che sta perseguendo. Allo stesso tempo, la freddezza misteriosa di Loki, nata probabilmente in un passato forse non troppo pulito o comunque assai problematico, sfocia in una toccante risolutezza quando il mistero intravede una qualche lontana risoluzione, e una sequenza come quella della corsa in auto, mentre una pioggia di colori sembra sciogliere il parabrezza, è un misto di solennità ed emozione che ben poche volte ho visto nel cinema con una simile intensità. Pellicola di gran classe e di squisita eleganza, il cinema americano ha sporadicamente raggiunti simili vette in un genere che crede sia facile da creare e gestire servendolo a un pubblico sonnolento e poco curioso, dimenticando valori, simboli e analisi (l'uso delle armi, la giustizia a tutti i costi) che, chissà perché, solo uno straniero come Villeneuve poteva affrontare e sviscerare dall’interno. Probabilmente miglior film del 2013.