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PROCESSO A UN FILOSOFO, o di una vittima dell’intolleranza

Creato il 30 gennaio 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

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Jean Fran├ºois Pierre Peyron - La morte di Socratedi Riccardo Alberto Quattrini. Allo Statens Museum for Kunst a Copenhagen, Danimarca vi è conservato un quadro del pittore francese Jean François Pierre Peyron (1744-1814, Francia), olio su tela realizzato nel 1787 in cui è dipinta la morte di Socrate. Il filosofo è al centro della scena, e discute della teoria della immortalità dellanima, tiene un braccio sospeso con la mano aperta, come a voler sostenere il peso del cielo, mentre distende l’altra verso la coppa contenente la micidiale cicuta. Socrate appare di una lucidità e di un coraggio sorprendenti, contrapposti alla disperazione e alla debolezza dei discepoli presenti. E Socrate, il filosofo che disprezza la morte e la affronta senza turbamento d’animo, con una dignità, che è assente nell’idea straziante, aperta solo alla speranza della resurrezione, che appartiene al cristianesimo. Qui la morte è confortata dalla continuità della parola filosofia, non fa paura a un’anima superiore. Un tema frequente nel neoclassicismo dove l’exemplum virtuosi costituiva un tema frequente.

E’ ancora notte in quel febbraio del 399 avanti Cristo, la mattina è ancora fredda, ad ovest, il Licabetto ha la cima ancora innevata, ma in tutta la città di Atene c’è uno strano fermento e migliaia di ateniesi si dirigono verso l’Agorà. Ogni cittadino si fa precedere da uno schiavo con una torcia accesa. A quel tempo ad intasare le strade ci voleva ben poco. Plutarco racconta che le vie erano così strette che, per evitare collisioni, gli ateniesi quando uscivano di casa, c’era l’obbligo di bussare alla propria porta. C’era nell’aria buia una strana eccitazione, come se, invece che a un processo, ci si recasse tutti alle oscoforie.[1]

Nell’Agorà, sulla tribuna di pietra in fondo allo spiazzo del tribunale, tra le due file di arcieri, l’arconte epònimo Aristocrate funge da presidente. Terminati i sorteggi da parte degli aspiranti giudici, che avvenivano all’ingresso dei tribunali mediante dei marchingegni di marmo, chiamati cleroterion, consistente in una superficie piatta con diverse cavità orizzontali, dentro le quali ciascun candidato doveva introdurre una tavoletta di bronzo con le proprie generalità. Queste tavolette erano in pratica delle vere e proprie carte d’identità: portavano inciso il nome, il patronimico e il demo di provenienza. Una volta introdotta la tavoletta, un meccanismo interno faceva rotolare, attraverso una serie di condotti, un dado bianco o un dado nero: a seconda del dado che usciva dal cleroterion, il cittadino veniva ammesso o no alla giuria. Per la loro opera i giudici ricevevano un gettone di presenza: tre oboli al giorno, più o meno il 60 per cento della paga di un operaio. All’esterno, intanto, degli schiavi pubblici, facenti funzione, di polizia urbana, per impedire alla folla dei curiosi di invadere le zone riservate ai prescelti, tenevano tesa davanti agli ingressi la “corda vermiglia”, una fune rossa dipinta di fresco, che macchiando un cittadino, lo avrebbe privato per un anno dei misthos ecclesiastico, ovvero dei diritti di assemblea. (2)

In piedi, accanto al suo seggio, l’araldo inizia a leggere rivolgendosi ai cinquecento giudici popolari.

   <<Siete stati scelti dalla sorte con il benevolo degli dei>>, proclama rivolto ai giudici, <<per emettere la vostra sentenza in questo processo intentato da Melèto, figlio di Melèto, del demo Pitteo, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo di Alòpece.>> Sulle panche di legno i cinquecento giudici popolari si agitano per un istante e parlottano sommessamente fra di loro, mentre l’araldo prosegue nella lettura: <<Socrate è colpevole, secondo l’accusa di Melèto, dei seguenti delitti: primo, Socrate non crede agli dei di Atene, secondo, Socrate propone nuove divinità, terzo, Socrate corrompe la gioventù. L’accusatore, che è appoggiato nella sua azione da Anito e da Licone, chiede per il colpevole la pena di morte.>>

Dietro le transenne che delimitano il tribunale, la gente si accalca curiosa e commenta ad alta voce, come è d’abitudine per ogni questione che riguardi il popolo ateniese.

Socrate è sullo sfondo, sulla tribuna di destra vicino all’arconte, si gratta la folta barba, ascolta curioso come sempre.

Allora lo stato non poteva intentare cause, ma un cittadino sì. Esso si assumeva ogni responsabilità e ogni conseguenza, qualora l’accusa formulata non fosse risultata vera.

Dunque l’accusatore principale è Melèto, ma con lui c’erano altri due compagni, i quali, come lui, avevano lo stesso diritto di parola nello svolgimento del processo, questi si chiamavano Anito e Licone. Ma colui che lungamente ispirò l’accusa, che abilmente la preparò nei diversi circoli cittadini, che autorevolmente la sostenne, con l’autorità del suo nome, nella discussione del tribunale, non fu Melèto ne tanto meno Licone; fu Anito. Anito è figlio di un ricco commerciante di cuoio. Da giovane frequentò Socrate. Nel 410 fu stratega con trenta navi in soccorso di Pilo messenica; sorpreso da una tempesta non osò proseguire e fece così ritorno. Accusato di tradimento e processato, riuscì a corrompere i giudici e fu assolto.

Per comprendere dunque come si era potuti giungere ad accusare un uomo come Socrate, un maestro di virtù, si deve fare un passo indietro e tornare all’Atene del 416 a.C.

La cornice è la casa di Agatone un poeta tragico che volle offrire un banchetto, così come era usanza, per festeggiare la sua vittoria, negli agoni delle Lenee (feste dedicate al dio Dioniso) dove nel corso di tali festività si svolgevano delle gare, (agoni) in cui gli autori tragici o comici gareggiavano tra loro a chi fosse il più bravo.

Immaginiamo quindi una tipica casa ateniese del V secolo a.C.

Era una festa tra amici, un ritrovo di aristocratici raffinati che, bevendo il miglior vino, avevano trascorso alcune ore dialogando di eros. Fra gli invitati, oltre a Socrate e al suo nuovo discepolo Aristodemo, vi era il medico Erissimaco e il suo amante Fedro, il commediografo Aristofane, Pausania l’amante di Agatone. Tema scelto come si è detto è l’eros. Se dapprincipio Socrate non era voluto entrare, rimanendo seduto fuori su una panca di pietra a scrutare le stelle, mandando avanti il recalcitrante e giovane allievo Aristodemo. Non appena si unì anch’egli, si sedette accanto ad Agatone. Quando, verso la fine della serata, ove l’argomento era oramai stato sviscerato a sufficienza, dalla porta entrò come una furia Alcibiade. Egli, si fermò barcollando sull’uscio. Era ubriaco, sula testa una corona d’edera, mentre una flautista lo sorreggeva. Nessuno lo aveva invitato. Ma, sfrontato come sempre, Alcibiade si presentò egualmente nella casa in cui il drammaturgo Agatone festeggiava una sua vittoria poetica. Oramai era tardi, gli invitati stavano quasi tutti per rincasare. Ma chi mai avrebbe sbattuto la porta in faccia ad Alcibiade, il leader politico più carismatico e più affascinante del suo tempo? Alcibiade, però, nel vedere tra gli invitati Socrate seduto accanto ad Agatone, rimase stupito e confuso. Si conoscevano da più di quindici anni. A Potidea, nel nord della Grecia, durante l’assedio alla colonia corinzia, Socrate, con il suo scudo, lo protesse da un contrattacco nemico salvandogli la vita. Socrate era il suo maestro, era l’uomo che amava, era anche l’unico che sapesse metterlo a disagio. Lo confessa Alcibiade stesso ai convitati: Se fosse che potreste credermi ubriaco perso, vi direi leffetto che mi fanno i discorsi di questuomo. Quando lascolto, il cuore mi balza in petto, e le lacrime mi sgorgano dagli occhi. Forse egli crederà che lo prenda in giro, ma ciò non è vero, quando sottendo chegli assomigli a quei silenti, li avete ben presenti, hanno un aspetto corpulento, così dicendo indicò Socrate che sorrideva, sono calvi e pelosi, disse sempre con il braccio teso a indicare il filosofo, che ora rideva ancor più divertito, hanno il dono della grande saggezza, disprezzano i beni terreni, che si vedono in bella mostra nelle botteghe degli scultori, e che gli artigiani ritraggono con in mano laulos. Perché mi costringe ad ammettere che io, pur essendo un uomo zeppo di difetti, non penso affatto a migliorarmi, ma invece sono tutto teso a occuparmi, nientemeno che delle faccende degli ateniesi. E lunica persona di fronte alla quale ho provato vergogna, io che ignoro il senso di vergogna. (Platone/Il Simposio)

Forse il vero motivo della morte di Socrate, sta proprio in quella festa in casa di Agatone, in quel ritrovo di pochi aristocratici raffinati. Perché il processo a Socrate fu anche, e sopratutto, un processo politico.  

Asebia in greco significa empietà, cioè mancanza di fede religiosa e come tale può configurarsi come un delitto. Per i Greci, che ebbero un sentimento religioso profondo, ancorché formale, perché non legato a precisi dogmi di ortodossia, e per i quali la religione era religione di stato, l’empio era fuori legge. Ma come è verificabile nella pratica un tale delitto, in una religione come quella dei greci dove non esiste una dottrina precisa, ma solo un insieme monumentale di riti? Evidentemente attraverso la violazione di questi riti: per esempio il furto in un santuario, o la partecipazione illecita a un rito, eccetera. Ma proprio nel periodo più illuminato della democrazia ateniese, durante il governo di Pericle, un decreto preciso è stato emesso per proibire la discussione delle cose divine. E cosa sono per i greci le “cose divine”? Sono niente e tutto insieme: la vita e la morte, la
natura e i sogni e l’intelligenza umana. Per tutti gli aspetti della realtà c’è infatti un dio, coi suoi riti: sole, luna, terra, acqua, bellezza, felicità, danza, lavoro: trentamila dei immortali che dipendono dal loro re, Zeus, secondo un modello gerarchico, che ricalca quello aristocratico della società greca arcaica, descritta da Omero ed Esiodo. Sono dei che vivono di rendita sull’Olimpo, fanno festa, giocano e combattono, come gli uomini; e come gli uomini rubano e ingannano, bisticciano e commettono adulterio. E se pure è la montagna più alta della Grecia con i suoi 2917 metri, nessuno ebbe mai la curiosità o l’ardire, di andare a vedere se in effetti esistessero.

E’ chiaro che, per investigare sulla natura e sull’uomo, il filosofo non può non imbattersi quindi in “cose divine”. Ma discutere di questi dei e dei loro riti significa metterne in evidenza le contraddizioni spirituali e storiche: quindi abbattere questo sistema religioso ormai sorpassato, incoerente con le nuove esigenze sociali e morali.

Evidentemente, il divieto di discutere cose divine promulgato ad Atene mirava proprio a salvaguardare questo sistema religioso, nell’illusione di salvare con esso e sopratutto gli antichi valori che in realtà erano in gravissima crisi, dopo l’avventura persiana e la realizzazione dell’imperialismo ateniese, con la confederazione marittima Delio-Attica (478). Per questo divieto, il filosofo naturalista Anassagora, e molti altri, avevano già dovuto abbandonare Atene. Per lo stesso delitto di asebia (empietà) è imputato Socrate: non perché abbia compiuto atti contro la religione, ma solo per averla messa in discussione.

Giudice supremo della comunità ateniese è il popolo che vota le leggi e i decreti, elegge i magistrati (arconti), decide le pene nei processi. Ma con eguale rigore sono salvaguardati i diritti dell’individuo. Solo la precisa accusa di un altro cittadino può produrre infatti l’incriminazione di un ateniese, che in tribunale è tenuto a difendersi direttamente, faccia a faccia con l’accusatore. Non esiste dunque un pubblico ministero, che prenda direttamente l’iniziativa come rappresentante della società, così come ai magistrati è lasciato solo il compito di preparare l’istruttoria e presiedere il dibattimento in tribunale. Se poi l’accusatore decide di ritirarsi dal processo, o non ottiene almeno un quinto dei voti, egli viene a sua volta condannato a una pesante ammenda di mille dracme e perde il diritto di presentare altre accuse dello stesso genere. Tutti i cittadini possono diventare giudici, purché abbiano almeno trent’anni e siano in possesso dei diritti civili. Il corpo dei giudici è composto da seimila cittadini, estratti a sorte nelle dieci tribù (dopo la riforma costituzionale di Clistene (508 a.C.), i cittadini di Atene furono divisi in 10 tribù territoriali), in cui era divisa Atene proporzionalmente al numero degli abitanti. A nord il vasto quartiere residenziale di Scambonide da cui si arrivava alla campagna passando dalle porte di Filé e di Arcane, a sud-ovest fra il Ceramico e la Palude, i quartieri popolari di Collito e Melito. A est, fuori dalle mura, si estendeva un sobborgo ridente, l’Agrilé, incorporato poi alla città dall’imperatore Adriano, col nome di Nuova Atene. (3)

Per ogni processo a cui partecipavano i giudici ricevevano un’identità di due oboli, corrispondenti pressapoco alla paga di mezza giornata lavorativa di un operaio comune. Il processo si doveva concludere in una giornata a meno che non intervenisse un “segno di Zeus”, cioè un temporale improvviso o un terremoto, che costringa il presidente ad aggiornare la seduta.

   <<Non è facile, in così poco tempo, liberarsi da imputazioni così gravi>>, dirà quindi Socrate nell’Apologia. Infatti le arringhe erano rigorosamente regolate da una clessidra. Durante il dibattimento i giudici rimanevano in silenzio e passivi, finché l’araldo non li chiamava a votare. Se l’accusa è rigettata, l’imputato è assolto e tutto ha termine. Le pene erano capitali o pecuniarie: il carcere era preso in considerazione soltanto come pena accessoria, quando il condannato non sia in grado di pagare l’ammenda. Non esistendo una vera e propria giurisprudenza, lo stesso delitto poteva essere punito quindi con la morte o con una multa insignificante.

La figura del difensore non esisteva. Gli avvocati o “logografi”, erano personaggi importanti anche se non svolgevano un ruolo vero e proprio nei processi (mancava la figura del procuratore giudiziario, e la difesa era riservata all’imputato). Il loro compito, dunque, era quello di stendere i discorsi che gli imputati dovevano imparare a memoria o ricordare le parti più importanti al fine di farsi rimettere l’accusa. Fuori dalle aule del tribunale, c’era tutta una qualificazione professionale in base agli “assistiti” che hanno vinto un maggior numero di cause. I logografi più bravi sono celebri, e richiedevano esose parcelle. Per far vincere i propri clienti, ricorrevano a tutti i mezzi. Del resto, era consuetudine comune che gli accusati facessero intervenire ai processi le mogli, le madri, i bambini, per influenzare i giudici coi loro pianti e lamenti.

E’ a questo tipo di gioco processuale che Socrate ha deciso di non sottostare.

Fisicamente Socrate rassomigliava all’attore francese degli anni Cinquanta, Charles Laughton nel film Testimone daccusa. Nacque nel 469, nel demo di Alòpece un sobborgo di Atene, da un padre scultore, Sofronisco, e da Fenàrete, la madre levatrice. Le condizioni di famiglia verosimilmente agiate. Vicende della sua vita, per grandissima parte sono ignote. Visse quasi sempre in Atene, da cui uscì ben poche volte, per ragioni di servizio militare, tra il 432 e il 422, per combattere a Potidèa, a Dèlio e ad Anfìpoli. Da giovanotto di sicuro dette una mano in bottega al papà scultore, finché un bel giorno Critone, “innamoratosi della grazia della sua anima”(4) non lo portò via per iniziarlo all’amore della conoscenza. Diogene Laerzio, nelle sue Vite dei filosofi, racconta che Socrate ebbe come maestri Anassagora, Damone e Archelao e che di quest’ultimo fu anche l’amante (5), o per essere più precisi leromene (a quei tempi, quando c’era un rapporto amoroso tra due uomini, veniva chiamato éraste l’amante anziano ed eromene quello più giovane). Degli amori omosessuali nella Grecia classica, si deve sapere che l’omosessualità a quei tempi era cosa normalissima e non a caso è passata alla storia come: “amore greco”. Plutarco la definì: “pederastia pedagogica”. (6) Quando Gerone, tiranno di Siracusa, s’innamora del giovinetto Dailoco, commenta semplicemente dicendo: “E’ naturale che mi piaccia ciò che è bello”. (7) Che poi questo bello fosse un ragazzino, un uomo o una donna era un particolare da poco. I veri guai cominciarono con il cristianesimo, quando la nuova morale concepì il sesso solo come mezzo di procreazione, e considerò peccaminoso qualsiasi tipo di rapporto sessuale, da lì le persecuzioni e i pregiudizi assai diffusi ancora oggi.

Socrate ebbe tanti amanti a partire dai suoi maestri: Critone, Damone, Archelao, fino ai suoi discepoli fra cui il più noto Alcibiade. Si ammogliò tardi con Santippe, sembrerebbe più che per amore, per portare nuove leve di coscritti, se nel 399 il maggiore dei suoi figli, Lamprocle era ancora adolescente. Ebbe anche altri due figli Sofronisco e Menesseno ma secondo Aristotete e Plutarco, li ebbe con una concubina di nome Mirto. Santippe ebbe fama di donna insopportabile e bisbetica. Stare con lei, disse un giorno Socrate, è come per un domatore di cavalli selvatici, si finisce per imparare ad adattarsi ad ogni essere umano. Anch’egli come tutti i cittadini del ceto medio, a 18 anni venne iscritto nelle liste di leva. Fu scelto come oplita, e andò a far parte della fanteria pesante, che era il nerbo dell’esercito greco. L’addestramento militare, a quei tempi, era particolarmente duro e rigoroso e durava due anni; al termine dei quali l’oplita riceveva dalle autorità dello Stato lo scudo tondo e la lancia. Al resto dell’armamento – corazza, schinieri, elmo e spada – il giovane soldato doveva provvedere coi suoi mezzi o con quelli della sua famiglia.

Mentre Atene si trova nel suo più splendido fulgore, sotto il governo di Pericle, dove cresce in bellezza e nella cultura. Dove grandi architetti come Mnesicle e Fidia innalzavano opere come i Propilei dell’Acropoli, la statua d’oro di Atena e il Partenone, Socrate si dedicava ad inventare il mestiere di filosofo. Già, perché in quanto a lavoro, lo sanno tutti. Socrate non ha mai lavorato. Forse solo da giovane ha scalpellato qualcosa col padre, buon scultore, ma senza darsene mai troppa pena. Né ricco né fannullone, Socrate è sempre stato uno che si accontentava di quello che aveva: di mangiare la solita razione di pesce con le olive, come del resto tutta la gente comune di Atene, di indossare il semplice chitone, durante tutte le stagioni dell’anno, senza il mantello e senza neppure le scarpe. Finché è stato scapolo, la piccola rendita materna gli era sufficiente. Dopo, quando a cinquant’anni suonati ha messo su famiglia, qualche amico ha dovuto aiutarlo, naturalmente senza apparire, portando di nascosto alla moglie Santippe qualche cesta di viveri o dandole alcune monete per i vestiti dei figli. Non che Socrate sia mai stato un tipo tranquillo, anzi. Sempre in giro per le strade o sotto portici ombreggiati dell’Agorà, o seduto a mensa nei conviti serali imbanditi dai più bei nomi di Atene. Socrate non si è mai fatto pregare nel dare la sua opinione, ogni volta che gli veniva richiesta. Parole pacate, concrete, alla buona. Ma sempre mordaci, questo sì, ciò metteva a disagio, soprattutto quelle sue continue domande su tutto e su tutti, e quel suo modo di porle, come se lui già sapesse le risposte. Amabile, spiritoso, bonario. Ma anche ironico, di quella lucida ironia che sembra trapassare in ogni momento la persona stessa dell’interlocutore, le sue parole, i suoi sguardi, i suoi movimenti. I suoi interlocutori, come racconta il biografo Diogene Laerzio, spesso “lo pigliavano a pugni e gli strappavano i capelli”.

Un tipo stravagante, dunque, che veste, mangia e parla come tutti i comuni ateniesi, ma che ha sempre trascurato quella che è la principale occupazione di tutti gli altri suoi concittadini: fare soldi, col commercio, accumulare e amministrare ricchezze e patrimoni. E dunque, che mai può aver combinato, ora, a settant’anni, un uomo simile, per essere chiamato a rispondere di un delitto così grave da richiedere la pena di morte? O forse è stata la città, tutta la gente di Atene che è cambiata negli ultimi anni, che si è stancata di questo vecchio vagabondo simpatico sì, ma forse troppo ingombrante con le sue chiacchiere e coi suoi problemi?

Non dimentichiamo che erano anni drammatici. Non è un caso che Platone ambienti il suo dialogo proprio nel 416 a.C. Subito dopo, infatti, si compì una svolta radicale e tumultuosa nella storia di Atene.

La città era entrata in guerra nel 431 a.C. contro la sua eterna rivale Sparta. Nel 421 a.C. era stata stipulata una tregua. Alcibiade, sebbene di famiglia nobilissima, si presentava allora come il leader della fazione democratica estrema, impaziente di riprendere le armi per ridare fiato all’imperialismo ateniese. In una drammatica seduta dell’assemblea, Alcibiade fece votare una spedizione militare contro la Sicilia. Quella spedizione si sarebbe risolta nel più grande disastro militare della storia ateniese. Ma Alcibiade allora non lo sapeva. Né sapeva  che a quella spedizione lui non avrebbe mai preso parte. Nel 415, infatti, mentre le triremi ateniesi si preparavano a salpare per la Sicilia, Alcibiade fu coinvolto in uno scandalo che lo costrinse a fuggire dalla polis, prima a Sparta e poi in Persia. Anche in questo caso, come sarà per Socrate, questioni religiose facevano velo allo scontro politico: si disse che Alcibiade aveva organizzato in casa sua una parodia dei venerabili Misteri di Eleusi (erano riti religiosi che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra nella città di Eleusi). Lo si accusò di avere partecipato al danneggiamento dei busti del dio Ermes (le Ermes erano poste ai crocevia delle strade principali), mutilate tutte in una sola notte nel novembre del 415, in quella, che si supponeva essere, la prova generale di una congiura oligarchica contro la democrazia. L’esilio di Alcibiade e la sconfitta in Sicilia misero in crisi Atene. Le consorterie oligarchiche riuscirono per qualche tempo a commissariare le istituzioni democratiche sottoponendole al controllo di organismi ristretti. La guerra contro Sparta si riaccese. A un certo punto, nel caos generale, lo stesso Alcibiade fu richiamato a furor di popolo, come salvatore della patria. Ma la situazione era ormai compromessa. Mentre Alcibiade riprendeva la via dell’esilio, le truppe spartane stringevano Atene in una morsa sempre più stretta. La flotta, ultima risorsa degli Ateniesi, riuscì a ottenere un’estrema e inattesa vittoria alle isole Arginuse, oggi Isole Alibey, nello stretto mare di Lesbo e l’odierna Turchia. Ma il tribunale di Atene, decise incredibilmente di condannare a morte gli ammiragli vincitori, con l’accusa di non aver salvato i marinai naufraghi. Un’accusa avanzata per compiacere demagogicamente il popolo (i marinai appartenevano agli strati sociali più bassi). Uno dei pochi che si oppose coraggiosamente alla condanna sostenuta istericamente da larga parte dell’opinione pubblica, fu proprio Socrate.

Fu in quel momento che, molto probabilmente, Socrate aggiunse un altro gradino al suo patibolo che lo avrebbe condotto alla morte. Atene nel 404 a.C. era capitolata, gli Spartani entrarono in città ponendo fine a un conflitto quasi trentennale. La guerra del Peloponneso cambiò il volto della Grecia antica. Se le guerre persiane avevano portato ricchezza e potere, lo scontro trentennale con la potenza egemone del Peloponneso, portò inesorabilmente alla sua decadenza. Insediarono così un governo dei cosiddetti Trenta Tiranni. Lo guidava Crizia un aristocratico e spregiudicato anticonformista, un raffinatissimo poeta, anch’egli discepolo di Socrate, cosa che gli ateniesi non avranno mancato di notare. Il regime durò poco più di otto mesi. Fu rovesciato dagli esuli democratici guidati da Trasibùlo, supportato dal re di Sparta Pausania. La democrazia così ristabilita, decretò, prima del suo genere, un’amnistia che garantì l’impunità per tutti i delitti consumati durante la guerra civile. Ma, nell’aria, rimase un certo fastidio per chi era ormai visto come il cattivo maestro di tanti leader senza scrupoli, che avevano imperversato con criminale spregiudicatezza negli ultimi anni. Socrate, senz’altro, se ne rendeva conto. Già nel 424 Aristofane (che pure doveva essere suo amico, visto che Platone lo fa partecipare anche lui alla festa narrata ne Il Simposio) lo aveva rappresentato nella commedia Le Nuvole, come un grottesco ciarlatano, che misura i piedi delle pulci, e sta seduto in un cestino sospeso a mezz’aria per scrutare più da vicino la volta celeste. Il finale sinistro, della commedia, inscena un grande incendio in cui Socrate e i suoi discepoli muoiono bruciati.

Un monito?

Se il dialogare nelle piazze e nelle strade della città, aveva affascinato numerosi giovani per il suo modo di parlare, per le sue idee e la sua dottrina, così non era per coloro che lo vedevano come un sofista, parola che nel V secolo aveva cambiato significato, rispetto al concetto che avevano nella Grecia antica, dove (sophistès) significava colui che donava sapienza. Ora veniva usata come dispregiativo, per coloro che insegnavano a pagamento, l’arte della retorica, insegnando tesi opposte aventi lo stesso significato. Se c’era quindi un pretesto da ricercare, da parte di alcuni politici, che vedevano in Socrate un nemico politico, in quanto metteva in dubbio la democrazia e la sovranità dello Stato, che i capi di governo volevano gestire e imporre ai cittadini, senza problemi e intromissioni. Dopo i fatti narrati, era venuto il momento per estrometterlo dalla polis.

Dunque, quel processo svoltosi nel 399 a.C., fu l’esito di una lunga sfida tra Socrate e i politici della  sua città. Anito e Licone, esponenti del  regime democratico, come abbiamo visto, non volendo figurare in prima persona, per non dare adito a qualche pretesto, si servirono di un giovane letterato, ma ambizioso, come prestanome per accusarlo in tribunale. Il giovane Melèto, dunque, fu l’accusatore d’ufficio.

I capi d’accusa li conosciamo, corrompe i giovani e per “corrotti” si intendevano gli Alcibiade e i Crizia. Anche Senofonte, altro giovane “corrotto”, ci fa sapere che gli accusatori accusavano direttamente Socrate di aver educato al contempo “il più sfrenato, il più arrogante e il più violento tra quanti militavano dalla parte della democrazia”. Ed essi si riferivano ad Alcibiade e “il più ladro e il più sanguinario tra gli oligarchi”. Ed era Crizia.

Il processo, come del resto tutti i processi, si svolse nell’Agorà e durò un solo giorno, esattamente dieci ore.

Dieci ore, per giudicare un uomo di settant’anni, un uomo virtuoso e morigerato, cittadino modello, timorato degli dei, che aveva avuto solo la colpa di insegnare alla gente il Bene e le Virtù. Egli si paragonava ad un tafano che il dio, che lo consigliava fin da bambino, lo abbia imposto alla città, invitandolo e consigliandolo a fare certe cose, non sia solo la coscienza, ma piuttosto ciò che trascende l’uomo, ciò che è la guida trascendente e divina della condotta umana.

La clessidra piena d’acqua, sul tavolo dell’arconte, scorre da qualche istante, da quando Socrate ha preso la parola per la sua arringa difensiva. Egli si alza da uno sgabello posto poco distante dalla tribuna; indossa il solito tribon, cammina appoggiandosi ad un bastone di rovere. Si guarda intorno, come se volesse prendere tempo nel cercare le giuste parole per argomentare la sua difesa. Da ultimo si gratta ripetutamente la folta barba. Socrate, da buon oratore quale era, non poté certo accettare passivamente le accuse che aveva udito muovergli contro, da quel Melèto di cui sapeva ben poco: “è un giovane, uno coi capelli tesi e lisci, con poca barba, e il naso a becco d’uccello” .(8)

   <<Quale impressione abbiate provata voi, o cittadini di Atene alle parole dei miei accusatori, non mi è nota. Certo che è stata tale e tanta la persuasione di costoro che, se non si trattasse della mia persona, anch’io crederei alle loro parole.>> (9) Il pubblico rumoreggia dietro le transenne, Socrate prosegue: <<Voglio raccontarvi di uno strano episodio che capitò a Cherofonte, egli fu mio compagno fino dalla giovinezza, e amico del vostro partito popolare; e con voi fu esule nell’ultimo esilio, e ritornò con voi. (Socrate ci tiene a specificare che egli fu uomo di parte democratica contro il governo dei Trenta, dunque persona da considerare in quanto non di parte). Un giorno egli si recò a Delfi e osò porgere all’oracolo questa strana domanda: Cè qualcuno al mondo più sapiente di Socrate?. E sapete cosa rispose Apollo Pizio? Non c’è nessuno al mondo più sapiente di Socrate. Immaginatevi la sorpresa quando Cherofonte mi riferì il responso: che cosa avrà mai voluto dire il dio? Io so di non sapere né poco né molto, e dal momento che il dio non può mentire, mi chiedo: che cosa avrà nascosto sotto l’enigma? Di ciò può essere testimone il fratello di Cherofonte, giacché lui non è più tra i vivi.>> (10)  Gli ateniesi a quelle parole rumoreggiarono, tanto che dovette intervenire l’arconte a calmare gli animi.

Socrate proseguì nella sua difesa. Disse di avere sempre rispettato gli dei della città, e precisò che egli si era sempre dissociato dai suoi scriteriati discepoli. Ricordò alla corte il suo duro contrasto con Crizia: quando il tiranno, ordinò a cinque uomini di andare ad arrestare un oppositore politico, il generale Leonte di Salamina. Unico dei cinque, Socrate, si rifiutò e se ne ritornò a casa rischiando la morte. Non aggiunse che fra i quattro c’era Melèto. Furfanti o deboli o vili di questa specie, che si adattano a ogni contingenza e sono veloci a mutar volto e pensiero, se ne possono noverare sempre cospicui. Ma perché non disse questo ai giurati? Il ricordo avrebbe avuto una efficacia alla sua difesa. Invece aggiunse solo: <<E sarei morto senz’altro>>, disse Socrate <<se il governo dei Trenta Tiranni non fosse caduto poco dopo.>> Il tentativo di scindere le proprie responsabilità da Crizia, non diventa tuttavia adesione all’ortodossia democratica: anzi, quando si rivolge ai giudici, Socrate, usa espressioni come “il vostro partito popolare” sottintendendo che lui milita comunque su un altro fronte.

La giustizia ai tempi di Pericle, era organizzata in modo che, ad ogni inizio d’anno gli arconti, sorteggiavano seimila ateniesi di età superiore ai trent’anni che avrebbero costituito leliea, (il massimo tribunale ateniese istituito da Solone nel VI sec.) ovvero il serbatoio dal quale, volta per volta, avrebbero prelevato i cinquecento giudici per ciascun processo. C’è una questione che si deve conoscere, riguardo al funzionamento dei tribunali ateniesi, una ragione più politica che giudiziaria, si trattava dell’ostracismo, una strana procedura molto in voga a quei tempi. Quando un ateniese riteneva che un suo concittadino, per qualunque ragione, poteva nuocere al bene della polis, si recava all’agorà e con la semplice emissione su un pezzo di ceramica rotto da un vaso (ostracon), vi scriveva il nome del nemico. Se il numero totalizzava le 6000 segnalazioni, aveva dieci giorni di tempo per salutare amici e parenti, dopo di che era costretto a prendere la via dell’esilio. La condanna poteva durare dai cinque ai dieci anni, a seconda del numero di coloro che avevano firmato. Fu Clistene, il vero fondatore, dopo Solone, che lo istituì alla fine del VI secolo come baluardo contro i tentativi di tirannia. (11)

Il sorteggio era uno dei cardini del sistema democratico ateniese nella formazione non solo delle corti giudiziarie, ma anche di tutti gli organi di governo. Ebbene, nella situazione in cui si trova, Socrate decide di mettersi a contestare proprio il meccanismo del sorteggio: perché, argomenta, dovremmo scegliere per sorteggio un governante quando invece non scegliamo per sorteggio, ma secondo la loro bravura, un flautista o un architetto, professioni assai meno importanti di quella di governante? Questi attacchi frontali alla logica della democrazia ateniese non potevano che irritare la giuria. Questa infatti, come testimoniano Platone e Senofonte, reagì all’autodifesa di Socrate con ripetuti schiamazzi. Più di una volta la strategia difensiva di Socrate fu provocatoria, quasi irridente.

   <<Se qualcuno  degli amici miei è diventato malvagio, non credo si debba attribuirmene la colpa; così come non merito alcuna lode per quelli che sono diventati galantuomini.  Vedo>>, disse e girò il grosso testone ad osservare chi stava dietro le transenne o tra la tribuna di pietra <<Critone, egli ha la mia stessa età. E vedo anche suo figlio Critobulo. Poi c’è Lisania di Sfetto col figlio Eschine, e poi, poco dietro, scorgo Nicostrato, Demodoco e Adimanto, Apollodoro e Platone>>, disse con il braccio teso ad indicarli uno a uno. <<Se davvero li ho corrotti>>, disse abbassando il braccio <<ce ne sarà almeno uno che, diventato vecchio, avrà potuto accorgersi che lo consigliavo male. Interrogateli dunque e li troverete tutti pronti a parlare in mia difesa, in difesa del loro corruttore, come mi hanno definito Melèto e Anito.>> (12)

Nella clessidra non c’è più acqua.

   <<Ho finito, cittadini>>, dirà Socrate scendendo dal podio.

Mentre l’arconte fa sistemare le due urne sul tavolo davanti al podio, ognuno dei giurati, mentre fa la fila davanti alle urne, difende la propria tesi. Mezzogiorno è passato da un pezzo e alcuni approfittano della pausa per tirare fuori il cartoccio del pane, sardine, olive e gallette di mazza (farina d’orzo). Nel frattempo, quelli che hanno già votato, si sistemano alla meglio sugli scanni per fare uno spuntino. Dietro le transenne le discussioni si intrecciano ad alta voce.

La prassi giudiziaria ateniese, prevedeva che ci fosse prima una sentenza di condanna, e poi una sentenza ulteriore in cui si definiva la pena. L’imputato aveva diritto di parola prima di entrambe le sentenze.

Ma ecco che finalmente le urne vengono scrutinate.

   <<Cittadini di Atene!>> proclama con solennità l’araldo <<questa è la sentenza emessa dagli elianti: voti bianchi 220, voti neri 280. Socrate, figlio di Sofronisco, è condannato a morte!>>

Un mormorio sgomento viene dal popolo assiepato dietro le transenne. Critone si nasconde il viso tra le mani. Socrate, si mostrò sorpreso che così tanti avessero votato a suo favore. Quando il vociare si esaurì, l’araldo riprese la parola.

   <<Ora, secondo le leggi di Atene, chiediamo al condannato di proporre lui stesso una pena alternativa.>>

Socrate si alza di nuovo aiutato dal suo bastone, si guarda attorno e allarga le braccia.

   <<Che io non provi rammarico, o cittadini di Atene, che abbiate votato la mia condanna, piuttosto mi meraviglio del numero dei voti, così com’è venuto fuori, dell’una e dell’altra parte. Bastava che trenta persone cambiassero opinione e sarei stato assolto.>> A questo punto, comunque, si doveva deliberare sulla pena. <<La mia pena?>> disse dunque Socrate nella sua seconda arringa <<Ebbene, io, per tutta la vita, ho trascurato gli interessi personali, la famiglia e la casa. Non ho mai aspirato a comandi militari né a pubblici onori. Non mi sono immischiato in congiure o in altre sedizioni. Quali pene, dunque, spettano a chi ha fatto queste cose? Dovreste quindi darmi un premio come benefattore della città. Propongo quindi che per me si deliberi il mantenimento a vita nel Pritaneo, a spese dello stato.>> (13) (14)

Come era prevedibile, un coro di proteste copre le sue ultime parole. Socrate, dunque, sfida ancora una volta la giuria. Solo per l’insistenza dei suoi discepoli, cede a più miti consigli e si dichiara infine disponibile a pagare una multa cospicua.

   <<E va bene>>, sospira Socrate, indicando Critone e gli altri discepoli <<qui ci sono i miei amici che insistono affinché io mi multi per trenta mine. Loro stessi, a quanto pare, se ne fanno garanti.>>

Trenta mine, che i discepoli stessi, Platone in testa, avrebbero raccolto con una colletta. Ma ormai la pazienza dei giurati è al colmo. La proposta del filosofo di farsi ospitare nel Pritaneo, ha irritato molto i giudici. Questa volta i sassolini nell’urna nera sono molto più numerosi: 360 contro 140. (15)

Socrate viene dunque condannato a morte.

Ma non viene giustiziato subito dopo il processo. E’ tradizione, che durante il viaggio della Nave Sacra partita per Delo con le ambascerie, fossero proibite le esecuzioni capitali. (Quando Teseo partì per Creta con le sette coppie di vergini e di bambini da dare in pasto al Minotauro, gli ateniesi fecero un voto: se le vittime si fossero salvate, avrebbero inviato a Delo, ogni anno, una ambasceria in onore del dio Apollo e ad Atene, durante tutto il viaggio della nave, nessuno sarebbe stato ucciso per ordine dello stato)

Dopo una ventina di giorni dal pronunciamento della condanna, vediamo Critone, compaesano e compagno di Socrate, andarlo a trovare in carcere.

E’ l’alba, il filosofo sta ancora dormendo, Critone gli si siede accanto in silenzio. A un certo punto Socrate si ridesta di colpo, vede l’amico e gli chiede:

   <<Che fai qui, o Critone, a quest’ora? Non è troppo presto per i visitatori?>>

   <<Sì, è presto: è appena l’alba.>>

   <<E dunque, come hai fatto ad entrare?>>

   <<Ho dato una mancia al messo degli Undici.>>

   <<E sei qui da molto?>>

   <<Da molto.>>

   <<E perché non mi hai svegliato subito?>>

   <<Perché dormivi così tranquillo che mi sembrava peccato svegliarti>>, rispose Critone. <<Io mi chiedo come tu possa trovare tanta serenità in questa sventura!>>

   <<Sarebbe strano il contrario, o Critone>>, disse Socrate stirando le braccia <<pensa come sarei ridicolo se alla mia età mi rammaricassi di dover morire.>>

In questo dialogo di Platone, che porta il nome di Critone, si evince tutta la meraviglia e la devozione dell’amico e come un rimprovero, a quella ostinata serenità di Socrate, che renderà ormai vano ogni suo tentativo di chiedergli di fuggire. Era prassi non rara, che un condannato a morte prendesse la via dell’esilio, prima dell’esecuzione. Anche i suoi accusatori si sarebbero accontentati. I discepoli avevano già organizzato l’evasione, ma Socrate, racconta Platone, decise di restare in carcere. La legge della città, disse, andava rispettata, anche se ingiusta. E dunque, quale notizia gli porta l’amico, per essere giunto di mattina presto.

   <<Hanno visto la nave a Capo Sunio>>, gli comunica con il viso contratto.

   <<E che c’è mai di così strano? Prima o poi doveva arrivare.>>

Per due giorni le strade di Atene sono state teatro di feste, canti, allegria. I bambini di tre anni hanno ricevuto le corone intrecciate di fiori, secondo il tradizionale rito propiziatorio, mentre gli adulti si sono dedicati alle gare delle brocche: brocche di vino, s’intende, da scolare nel più breve tempo possibile, con altro vino in premio. E così fino a sera, tra le processioni chiassose e sfrenate degli inebrianti seguaci di Dioniso, tra i cori e le corse all’impazzata giù verso il fiume, e i liberi balli sull’erba. C’è stata anche la processione rituale, naturalmente, col grande carro carnevalesco dedicato a Bacco, e le nozze sacre tra la regina, la Basilissa, e Dioniso stesso, impersonato dall’arconte. Il giorno seguente, dopo tanto vino, ci sarà la festa dei morti. In tutte le case la padrona farà bollire la minestra di legumi nella marmitta di coccio, e il padrone la offrirà fumante al dio Ermete, perché guidi i morti della famiglia per le strade dell’Aldilà. Nei giardini, le giovani vergini danzeranno nei loro pepli leggeri e si culleranno nel vento, tra le corde delle altalene, per sacrificare coi loro aggraziati atteggiamenti rituali la morte e la vita, che è di nuovo sbocciata nella primavera. La nave sacra, con la sua poppa incoronata, è giunta al Pireo, ha celebrato così il mitico viaggio di Teseo a Creta, dove il leggendario eroe uccise il Minotauro.

Domani, dunque, Socrate dovrà morire.

Gli amici si danno appuntamento davanti alla porta del carcere e attendono impazienti che il capo degli Undici li faccia entrare. Ci sono quasi tutti: c’è il fedele Apollodoro, il giovane Fedone, l’onnipresente Critone con il figlio Critobulo, Antistene il cinico, Ermògene ed Epìgene, Menesseno, Ctesippo ed Eschine, il figlio del salsicciaio. Qualcuno è venuto da lontano come i tebani Simmia e Cebete, o come Terpsione ed Euclide che sono di Megara. Tra i discepoli più noti mancano Aristippo, Cleombroto e soprattutto Platone che, a quanto pare, proprio quel giorno aveva la febbre.

Quando i discepoli finalmente, entrano nella cella trovano il maestro in compagnia di Santippe e del figlio più piccolo Menesseno sulle ginocchia. Alla vista dei nuovi venuti la donna si mette a urlare disperatamente.

   <<O Socrate, questa è l’ultima volta che gli amici parleranno a te e tu a loro!>>

I singhiozzi della donna si fanno sempre più angoscianti, finché Critone le si avvicina e dolcemente la accompagna verso la porta. Qualcuno dei servi la scorterà poi fino a casa, insieme ai figli, ma il suo pianto è rimasto dentro la cella, negli occhi dei presenti non meno disperati.

Nel frattempo uno dei carcerieri ha provveduto a staccare la catena dalla caviglia del prigioniero. Socrate non perde occasione per filosofare, mentre piega ogni tanto il ginocchio anchilosato:

   <<Che strana cosa amici>>, dice massaggiandosi la caviglia indolenzita <<piacere e dolore sembrerebbero di natura contraria tra loro, eppure si trovano tanto vicini da essere quasi una cosa sola. Quando infatti l’uomo desidera l’uno, deve subire necessariamente anche l’altro. C’è materia per una favola di Esopo.>>

Come era naturale, la conversazione si sposta sul tema dell’anima e della morte, cosa fare di meglio in queste ore d’attesa, che meditare e favoleggiare del viaggio per il mondo di là, che sta per intraprendere. Ognuno, come è naturale ha una sua teoria. Così hanno discusso per ore della vita e della morte, del corpo che muore e dell’anima che non muore; della felicità del sapiente che riesce a distaccarsi dagli impedimenti del corpo per attingere alla purezza della conoscenza, che è vera virtù. Hanno discusso fino quasi al tramonto, quando le ombre lunghe vennero proiettate sui muri della cella, e un vento fresco si era levato, ed era entrato dalle inferriate, e muoveva dolcemente le pieghe dei vestiti.

   <<E’ l’ora>>, disse Socrate a un tratto. <<E’ meglio che mi ritiri a fare un bagno, affinché poi le donne non debbano lavare il mio cadavere.>>

Vi furono attimi di silenzio, solo il soffiare del vento tra le griglie ossidate. Critone gli posò una mano sul braccio e gli domandò cosa potevano fare per i suoi figli, per la moglie e la sua casa?

   <<Nulla. Abbiate solo cura di voi, vivete secondo i princìpi sui quali abbiamo discusso tanto a lungo.>> E quando gli domandò in che modo dovevano seppellire il suo corpo. Egli rispose:

<<Come volete, sempre che riusciate a prendermi e io non vi sfugga tra le mani!>>

Ora il sole non entra più dalle inferriate. Tutto quello che c’era da dire è stato detto, tutto ciò che si doveva fare per attendere l’ora suprema è stato fatto.

Entra il messo degli Undici.

   <<O Socrate>>, dice anch’egli commosso <<sono sicuro che non te la prenderai con me, come è accaduto con altri che, prima di morire hanno inveito contro Atene e mi hanno stramaledetto. Tu sei il più gentile, il più mite, il più buono degli uomini che mi siano capitati qui dentro.>> Il messo scoppia in lacrime ed esce dalla cella.

L’uomo che reca il veleno è entrato, nel frattempo,  nella cella tenendo tra le mani una tazza.

   <<Dunque, brav’uomo>>, gli si rivolge Socrate <<tu che certamente te ne intendi, che cosa devo fare?>> Il servo sembra un poco in imbarazzo nel vedere quell’uomo così tranquillo. Di solito è lui a dover far bere con la forza il farmaco.

   <<Basta che tu la beva tutta e poi ti metta a camminare su e giù per la stanza, quando comincerai a sentire le gambe pesanti, allora ti sdrai sul letto e aspetti che il farmaco agisca da sé.>>

Socrate è rimasto ad ascoltare seduto sulla sponda del letto. Ora con i suoi occhi buoni e leggermente sporgenti, guarda la tazza e poi, da sotto in su, l’uomo che glie l’ha data.

   <<Pensi che con una simile bevanda, possa brindare a qualche dio?>> L’uomo gli risponde, con maggior stupore, che ne preparano solo la quantità sufficiente. <<Ho capito, allora dirò una semplice preghiera, perché il trapasso da questa vita a quell’altra sia felice.>>

E ingolla la cicuta, tutta d’un fiato, senza una smorfia di disgusto.

Quel gesto improvviso e definitivo, sconvolge tutti i presenti, anche tutti quelli che finora erano riusciti a trattenere le lacrime.

Critone disperato esce dalla cella. Apollodoro, che precedentemente non era riuscito a trattenere le lacrime, singhiozza disperatamente. Fedone piange nascondendo il volto tra le mani.

   <<Ma che fate? Che vi piglia?>> protesta Socrate <<ho fatto uscire Santippe proprio per evitare simili scenate, e voi…>>, dice e li tocca uno ad uno chi sulle spalle chi su un braccio, mentre continua a passeggiare come gli è stato consigliato. Dopo qualche minuto, sentendo le gambe che gli si stavano appesantendo, si distese supino. Fedone, che si trovava seduto su uno sgabello alla sua destra, accanto al letto, sente la mano di Socrate accarezzargli i lunghi capelli che è sua abitudine portare.

   <<Mi dispiace per i tuoi capelli, o Fedone>>, gli dice Socrate. In quanto era consuetudine tagliarsi i capelli quando moriva una persona amata.

Lo schiavo gli si avvicina e gli preme con una mano una gamba, chiedendogli se avvertiva la pressione. Socrate gli risponde di no. Il veleno sta facendo il suo dovere, anche il ventre ha perduto ogni sensibilità. Ora Socrate sentendo venire meno, si coprì il viso col lenzuolo. Quando, scoprendosi improvvisamente esclamò:

 <<Ricordati o Critone, che siamo debitori di un gallo a Asclepio. Dateglielo, non ve ne scordate!>> (17)

Fu questa scelta a decretare il suo trionfo postumo e a far nascere la sua leggenda. Restano ancora molti punti oscuri. Le stesse ricostruzioni di Platone e Senofonte divergono in più punti. Probabilmente, nel processo del 399, esplose una miscela di rancori e risentimenti che presto si disinnescò da sola. Uno storico insigne, Moses Finley, ha fatto notare come Platone, che era ancora più ferocemente antidemocratico del suo maestro ed era anche parente di Crizia, sia rimasto poi ad Atene indisturbato aprendo una sua scuola di filosofia.

Riccardo Alberto Quattrini

Una nota sulle ultime parole di Socrate.

Queste ultime parole di Socrate morente hanno dato luogo a varie interpretazioni da parte degli studiosi: quella più semplice e diffusa è che egli, che non vuole lasciare debiti irrisolti né con gli uomini né con gli dei, in specie con il dio Asclepio per avergli reso la morte indolore. Altri come Friedrich Nietzsche, ritengono che Socrate ringrazi il dio della medicina per averlo guarito dalla malattia del vivere: <<Queste ridicole e terribili “ultime parole” significano per chi ha orecchie: <<O Critone, la vita è una malattia!>> F. Nietzsche, Die frohliche Wissenschaft, 1882, par. 340,  -trad. it. La gaia scienza tomo II delle Opere di Friedrich Nietzsche, Milano 1987 -.

NOTE

(2)   (Robert Flacelière La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle. trad. it. cit., cap. IX.  Maria Grazia Meriggi  Cap. II pg. 60-61)

(3)   (Robert Flacelière La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle trad. it. Maria Grazia Meriggi cap. I. pg. 23-24)

(4)   (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II V, 21)

(5)  (Ibid., II, V, 19.)

(6)   (Plutarco, Dialogo sullamore, 750 d (cit. in R Flacelière,  La vita quotidiana in Grecia nel seco  

   lo di Pericle, Rizzoli, Milano 1983, p. 147)

(7)   (Senofonte, Jerone,  1, 33.)

(8)   (Eutifrone 2b)

(9)   (Platone, Apologia 17 b)

(10)  (Platone, Apologia, 20 e-23 c) (Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 38-41)

(11)  (J. Carcopino, Lostracisme athènien (Alcan, 2° ed, 1935) p. 5)

(12)   (Platone, Apologia di Socrate, Parte Prima (II-XXIV) p. 95-96  LA DIFESA DI SOCRATE)

(13)   (Platone, Apologia di Socrate, Parte Seconda (XXV-XXVIII) p. 101-102 LA PENA)

(14)  (Il Pritaneo era l’edificio sacro, dove venivano mantenuti, a spese dello stato, i cittadini che avevano conquistato l’alloro olimpico)

(15) (Diogene Laerzio II, 42)

(16) (Platone, Fedone – a cura di Manara Vermigli, Editori Laterza 1972)

(17) (ibid.)

[1]Oscoforie: festeggiamenti in onore di Dioniso

 

BIBLIOGRAFIA

PLATONE Fedone a cura di Manara Valgimigli – Editore Laterza – Bari – XXII ed. 1972. – (Piccola biblioteca filosofica Laterza).

PLATONE Apologia di Socrate a cura di Manara Valgimigli – Editore Laterza – Bari XXVIII ed. 1975 – (Piccola biblioteca filosofica Laterza).

PLATONE Eutifrone a cura di Manara Valgimigli – Editore Laterza – Bari XI ed. 1971- (Piccola biblioteca filosofica Laterza).

“I grandi contestatori -  Socrate”  (Bevve la cicuta per inventare l’uomo moderno) – a cura di Luciano Aleotti – Arnoldo Mondadori Editore S.P.A. 1973

Robert Flacelière – LA VITA QUOTIDIANA IN GRECIA NEL SECOLO DI PERICLE -Biblioteca Universale Rizzoli Milano 1983 (BUR).

Luciano de Crescenzo – Storia della filosofia greca -Da Socrate in poi – Arnoldo Mondadori Editore I edizione 1986.

 Diogene Laerzio  Vite dei filosofi vol. 1 – 2 - Editore Laterza collana Biblioteca universale Laterza. 2010 CXVIII – 320 pg. brossura, 8b ed.

Rivista: Civiltà” - La storia e i suoi protagonisti – PAST – PASSIONE PER LA STORIA Editore : My Way Media S.r.l. Anno III


Featured image, Jean François Pierre Peyron “La morte di Socrate”.

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