Procreazione assistita: verso una disciplina più equa

Creato il 21 maggio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

La Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione riguardante la procreazione medicalmente assistita nelle coppie fertili affette da patologie geneticamente trasmissibili. Il dispositivo del 15 maggio afferma l’illegittimità costituzionale di alcune norme della Legge 40, riconoscendo a queste coppie il diritto d’accesso alle tecniche.

 Il 15 maggio 2015 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 commi 1 e 2, nonché dell’articolo 4 comma 1 della Legge 40 del 2004, sulla procreazione medicalmente assistita. Da tempo si aspettava una pronuncia della Consulta: la corte CEDU, infatti, si era già espressa negativamente a proposito della disciplina vigente nel nostro paese. Il problema nasce da una crisi politica che ha portato a una normativa incapace di mostrarsi garante dei diritti costituzionali. Le motivazioni a sostegno di un ipotetico rischio di ricorso all’ eugenetica sono cadute una dopo l’altra, sotto il dettato della Costituzione e dei Diritti Umani. La lacuna normativa che ne è nata è stata in qualche modo rattoppata dalle pronunce della Consulta, che ha cercato di modificare la disciplina riservando le giuste tutele alle coppie che vi fanno ricorso. Pertanto, se l’intervento della Corte del 2012 aveva permesso la fecondazione eterologa, oggi la questione si ripropone a proposito delle coppie fertili, ma affette da gravi patologie genetiche. Una questione già sollevata undici anni fa, approdata alla corte di Strasburgo, e oggi – finalmente – risolta dalla nostra Corte costituzionale.

Quali fossero le paure che hanno portato l’Italia a una disciplina tanto oscura e contraddittoria sono ormai chiare.: si possono riassumere nel timore di una degenerazione verso la scelta del figlio migliore e lo scarto dei caratteri indesiderati. L’ottica di chi teme una manipolazione genetica di tale portata, non tiene però in considerazione l’obiettivo della Legge 40 (il diritto alla procreazione e alla famiglia), ma si rivolge verso ipotetici scenari – che oggi risultano quanto meno teorici – di mondi governati dalla scienza e dalla tecnica, nei quali il feto è concepito in provetta. Ora, è possibile comprendere questi timori e la scelta razionale di evitare tali degenerazioni tramite drastici divieti. Bisogna riconoscere, tuttavia, che la Costituzione si prefissa la difesa dei diritti dei più deboli e che la sola paura di scenari apocalittici non può arrestare il processo democratico inteso alla difesa degli stessi. È proprio questo il punto: il divieto legislativo ex artt. 1 e 4 della Legge 40 non trova ragionevole appoggio nella disciplina costituzionale. Non si tratta dunque di un bilanciamento d’interessi di pari grado, ma di uno scontro tra paura e principi fondamentali. Dopo undici anni, si è pertanto ristabilito l’ordine costituzionale.

Ma cosa prevedevano l’art. 1 comma 1 e 2 e l’ art. 4 della legge 40 del 2004 e perché sono stati riconosciuti incostituzionali?

Le motivazioni della sentenza della corte non sono ancora state pubblicate, ma argomentazioni interessanti si deducono dalle questioni addotte dai giudici del Tribunale di Roma, nonché dalle ragioni della difesa esposte nell’udienza pubblica del 14 aprile. Negli articoli sopracitati viene disposta la necessità di un requisito discriminatorio ben preciso per poter accedere alle tecniche di fecondazione assistita: si tratta infatti della presenza di una condizione documentata e insuperabile di sterilità/infertilità. La portata discriminatoria si evince sia da quanto detto nell’udienza che da quanto affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima si è pronunciata nel caso Costa-Pavan ( Costa e Pavan c. Italia, Corte Europea dei Diritti dell’ Uomo, Sez. II, del 28 Agosto 2012, reperibile sul sito internet della C.E.D.U.) rilevando la sproporzione di tale discriminazione e la relativa irragionevolezza, vista l’ esistenza di una corrispondente normativa sull’aborto. Quest’ultima, infatti, permette il ricorso alla tecnica abortiva nei primi 90 giorni di gestazione in caso di rilevate malformazioni o anomalie del concepito. In concreto, per le coppie portatrici di malattie genetiche il nostro ordinamento obbligava al ricorso dell’aborto piuttosto che permettere il semplice impianto di un embrione sano: l’ingerenza del diritto, incurante del dolore psichico e fisico della donna, costringeva all’azzardo e – eventualmente – alla sofferenza di una pratica moralmente e fisicamente dolorosa. In Italia e nel mondo sono moltissime le patologie genetiche trasmissibili che spesso i genitori non sanno neppure di avere: si pensi alla beta talassemia, diffusissima nelle zone del delta del Po, in Sicilia e Sardegna. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che circa dieci bambini su mille nel mondo nascono con una malattia genetica.

Le ordinanze del tribunale di Roma riguardano due coppie portatrici di gravi patologie genetiche (una di questa portatrice, in particolare, di disforia di Becker) desiderose di concepire un figlio sano. Il requisito di sterilità e infertilità, tuttavia, agisce come discriminante nei confronti di ogni genere di coppia fertile, non permettendo l’accesso alla tecnica di fecondazione neanche in caso di malattie geneticamente trasmissibili. Altra contraddizione, nasce dalla possibilità, riconosciuta nella Legge 40, di diagnosi preimpianto per le coppie sterili (art. 14 co. 5) e per le coppie con l’uomo portatore di malattie sessualmente trasmissibile, con l’assurda conseguenza che a queste ultime è garantito l’impianto di un embrione sano, a tutte le altre no.

L’incoerenza con la disciplina dell’aborto e la discriminazione derivante dalle modalità di diagnosi preimpianto sono di per sé sufficienti a spiegare l’approdo in Consulta dei ricorsi di queste due coppie: si pensi solo che una delle due ha dovuto affrontare cinque aborti, di cui quattro spontanei. Non è dunque vero che il divieto degli articoli della Legge 40 sia volto alla tutela del concepito, essendo possibile – nei suddetti casi – la diagnosi preimpianto e, negli altri, il ricorso all’aborto. La disciplina fino ad oggi è rimasta insuperabile in via interpretativa: il ricorso di legittimità si è rivelato dunque inevitabile.

Le norme parametro di detto ricorso sono l’art. 2, il 3, il 32 e il 117 cost.: l’articolo 2 sarebbe violato in quanto garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, in questo caso si tratta del diritto alla famiglia e alla procreazione come diritto personalissimo e, per questo, non sopprimibile da alcun tipo di ingerenza; l’articolo 3 è invocato proprio a fronte delle discriminazioni operate dalla Legge 40 e sopra esposte; la disciplina ex art. 32 tutela poi il diritto alla salute, che sarebbe violato dalla legge italiana, costringendo la donna a sofferenze psichiche e fisiche prevenibili; l’art. 117 è richiamato, infine, in quanto sancisce l’obbligo per l’Italia di adeguarsi alla pronuncia della corte di Strasburgo (in questo caso alla sentenza dell’ 11.02.2013).

In attesa della pubblicazione delle motivazioni della Corte costituzionale, rimane comunque fermo un punto: è stata aperta una via che molte coppie vedevano ingiustamente sbarrata e che, si spera, possa riportare umanità in una disciplina ormai stravolta.

Tags:cedu,corte costituzionale,Costa-Pavan,costituzione,diagnosi preimpianto,diritto alla salute,embrione,fecondazione,illegittimità,patologie genetiche,procreazione assistita,sentenza

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