Versi tagliati… Prima di addormentarmi ho l’abitudine di leggere qualche pagina. Solitamente non leggo mai per due sere di seguito lo stesso libro. La lettura serale per me rappresenta un vero e proprio atto rituale. Non è tanto importante il momento in cui mi metto a letto e apro le prime pagine del libro, quando, invece, il momento in cui, prima di coricarmi, devo scegliere le pagine da leggere. In questo rituale a volte mi capita persino di perderci decine e decine di minuti. Quando sono davanti alla mia libreria per scegliere una lettura, prendo tra le mani un libro, lo sfoglio velocemente, poi lo rimetto a posto, e ne prendo un altro. A volte, come dicevo, vado avanti in questa scelta arrivando a scorrere anche dieci o quindici libri, finché alla fine, stanco di questo continuo sfogliare, arrivo al punto di dire a me stesso ora scelgo il primo libro che mi capita. Di solito la scelta cade su qualche raccolta di poesia. Addormentarmi leggendo qualche verso mi rasserena l’animo. Ma la scelta di leggere poesie dipende anche dal fatto che questa lettura non mi vincola, non mi impegna a proseguire l’identica lettura anche la sera successiva. È una lettura priva di conseguenze. Finito di leggere un componimento poetico, posso finalmente addormentarmi, e lasciare che gli ultimi versi letti cullino il mio sonno.
Ora che ero completamente guarito, tornavano non solo le forze, ma anche le vecchie abitudini. Quando sono al paese, questo rito è piuttosto dimezzato, perché dispongo di una scelta piuttosto limitata. Nelle due serate precedenti, a causa dello stato in cui versavo, avevo saltato di compiere questo rituale bizzarro. E fu a al quel punto che mi ricordai che prima di partire avevo acquistato su una bancarella un libro vecchio. Addirittura non avevo avuto neanche modo di tiralo fuori dalla borsa di viaggio. Lo avevo lasciato avvolto in una busta di plastica. Quella sera, quindi, non faticai molto a scegliere il libro della lettura serale. Questo libro, dal formato tozzo e maneggevole, trascurato nell’aspetto esteriore, anche se riportava sul frontespizio la data MDCXI, non era costato molto, perché si trattava di un tomo quarto di un’opera smembrata. Era un’opera, scritta in latino, di Sant’Agostino. Aveva una copertina rigida e dura, che conservava tutti i segni dei quattro secoli trascorsi. Il suo colore giallino era ricoperto da una patina di polvere che ne aveva cambiato l’aspetto. Soltanto sul dorso v’era riportata, scritto a mano, il titolo e l’autore:
S. Augustini
Questiones
Pars I
Ti IV
Gli spigoli delle pagine, sia sotto che sopra, erano leggermente rosicchiati. Sfogliando l’indice, capii che si trattava di commenti alle Sacre Scritture. Il frontespizio m’era piaciuto fin dal momento in cui lo comprai: in mezzo a una cornice arabesca v’era disegnata un’anfora dalla cui boccuccia fuoriusciva dell’acqua che innaffiava dei fiorellini, mentre alle sue spalle una nuvola dalle sembianze umane soffiava un venticello. Un motto, “A poco, a poco”, stampato in senso orario, sui bordi interni della cornice, circondava l’anfora. Mentre mi dilettavo ad esaminare questo disegno, notai che ai fianchi della cornice v’erano delle scritte a mano cancellate con dei ghirigori molto incisi. Si riusciva, appena appena, a leggere un “Io” e una “F”. Provai ad leggerle in controluce, ma il risultato non cambiava. L’inchiostro, che copriva la scritta, era denso e aveva finito con l’assorbirla del tutto. Sulla pagina bianca, a fianco del frontespizio, era riportato, in un corsivo nell’andamento più o meno elegante, ricco di svolazzi, di prolungamenti e di code, una frase in latino, ma la grafia risultava anch’essa indecifrabile.
Cominciai a sfogliarlo per vedere se anche nelle pagine interne vi fossero altre scritte aggiunte a mano. Era un tomo di 954 pagine, ma ad una scorsa veloce non notai nessuna aggiunta. Nelle pagine bianche in fondo al volume sul lato destro c’erano altre cancellature e una parola che si ripeteva disseminata in modo disordinato su tutto il foglio: “Non possum”. Sulla parte bianca della copertina interna si leggevano chiaramente questi versi:
Scioltasi la lacrima si spand[e]
Nel dolce turbinìo dei tuoi […]
E una voce tremula e vibran[te]
sussurra la notte vergine degli aman[ti]
Era una grafia piuttosto angolosa e rigida, dal tratteggio pesante, che a colpo d’occhio denunciava, in certe particolarità, la mancanza di spontaneità. Le ultime lettere di questi versi non si riuscivano a leggere perché sopra vi era incollata una strisciolina di carta su cui si leggeva un nome Sign. Egidio Domenico… Dopodiché la strisciolina era stata tagliata, per cui non si leggeva il cognome. Tutt’e tre le grafie in fondo al tomo erano riconducibili, così mi sembrava, a un’unica mano, mentre quelle trovate sulle pagine del frontespizio, quella grafia delicata ed elegante, mi sembravano scritte da un’altra mano, forse femminile. Riuscire a completare il senso delle altre parole era facile, ma capire quale fosse la parola che combaciasse con “amanti”, non lo era affatto. E purtroppo non mi sembravano versi conosciuti. Forse appartenevano a chi li aveva tracciati sul libro. Provai a leggere il termine scritto dopo “…turbinìo dei tuoi…”, perciò delicatamente con le unghia tentai di strappare quella strisciolina che copriva la parola, ma venivano fuori soltanto pezzetti di carta, e la parola che chiudeva il verso rimaneva celata.
Cominciai allora a congettura sulla parola che potesse far rima con “amanti”: all’inizio mi veniva in mente “canti”, “incanti”, però non riusciva a spiegarmi come la lacrima del poeta potesse sciogliersi “nel dolce turbinio dei tuoi canti o incanti”. Pensai anche di far combaciare il termine “amanti” con “fianchi”, ma il senso mi sembrava fuori luogo. Quel “tuoi” era rivelativo, poiché denotava il fatto che l’autore si stesse rivolgendo nella sua mente a qualcuno. Immaginai, dunque, che il poeta o l’autore di questi versi, rivolgendosi a una donna, sciogliesse le sue lacrime su qualcosa che lo turbasse. L’ossimoro creato dal “dolce turbinìo”, mi faceva pensare a qualcosa del genere: il turbinìo mi suggeriva un movimento rapido e incalzante, una danza vorticosa, mitigata però da quel “dolce”. Come se l’autore di quei versi avesse voluto esprimere non solo lo smarrimento della sua anima, ma anche il fascino delle sue inquietudini intime.
Il che mi portava a pensare che ci fosse qualche elemento fisico o spirituale della persona, a cui quei versi erano indirizzati, che turbasse l’animo del poeta. Ma per quanti sforzi facessi, nessuna parola mi veniva in mente che potesse dare un senso compiuto al verso. Ritornai allora sul frontespizio: m’era sfuggito il particolare che sotto la data stampata, ce ne era un’altra scritta a mano: “Giugno 1629”. Colto da un’improvvisa folgorazione, accostai le pagine del libro al naso: sentii di nuovo quell’odor di carta ammuffita e di sacrestia della notte precedente, e i battiti del cuore accelerare. Lo so che non c’era nulla di strano che quelle pagine conservassero quell’odore. Credo che tutti i libri, che hanno assorbito gli umori secolari delle stagioni, restano alla fine impregnati di quell’odore. Voglio dire non era quello l’indizio che mi portava sulle tracce dell’esperienza olfattiva vissuta la sera precedente, ma erano quegli esili indizi, esili come fili di seta, quelle parole cancellate, quei versi strozzati, quel ripetere più volte “non possum” a riportarmi a “loro”.
Attraverso una sottilissima filigrana, “loro” mi parlavano, come un tempo “loro” si parlavano. Forse lei lasciava i suoi messaggi scritti suoi sui libri preferiti, lui ne cancellava i segni, e poi preso da un impeto d’amore tracciava altri segni sul fondo del libro. Ipotesi labili, labilissime, costruite su una fragile ragnatela. Immaginavo che la sera del bacio fosse avvenuta mentre lui leggeva questi versi. Più ripensavo a quella scena e più avevo l’impressione che la chiave di tutto fosse racchiusa in quella parola nascosta. Anche se tutto mi sembrava assurdo, in quel momento ero come se non riuscissi a liberarmi da un incantesimo, ero ossessionato dalla curiosità di sapere quale fosse la parola enigmatica. Non sapevo neanch’io in che modo quella parola, come dice il poeta, potesse darmi la formula che il mondo aprisse, che squarciasse il velo del mistero e che potesse finalmente dare pace al mio assillo. E fu durante quella lotta magnetica e ossessiva ch’ebbi l’impulso a masticare l’Amanita muscaria; ero preso da un’indicibile tentazione di scoprire, di sapere se quel libro che stringevo tra le mani era davvero il ponte che legava il mio destino al destino dei due amanti.
Confesso ch’ero terrorizzato: e se non riuscivo poi a controllare quelle visioni, cosa mi sarebbe accaduto? Quali mondi o universi nuovi avrei attraversato? Sarei riuscito a tornare indietro? Avevo riposto il sacchetto nel cassetto del comodino. Lo aprii e tirai fuori una strisciolina secca. L’annusai. Il profumo era simile a quello di un tartufo, ma un po’ mi respingeva, per cui facevo le stesse resistenze e smorfie di quando devi ingurgitare una medicina disgustosa. Ne spezzai un poco e cominciai a masticare. I minuti trascorrevano, e ogni secondo sembrava rallentarne il ritmo, non sentivo nessun cambiamento, forse ne avevo preso davvero poca o forse era un’invenzione di quel vecchio stralunato. Però la sensazione che il tempo, come i battiti del cuore, si fosse dilatato era netta; d’un tratto anche le meningi cominciare a pulsare, e avevo l’impressione che la testa volesse esplodere.
Il respiro cominciava a farsi sempre affannoso. Smisi a quel punto di masticare. Tutto ciò che mi stava intorno sembrava ampliarsi, come se dentro ci fosse una sostanza che facesse dilatare e deformare le pareti e gli oggetti. Per non perdere il controllo della coscienza, ripetevo continuamente a me stesso chi fossi e dove mi trovassi. Ma sempre più percepivo che i confini tra la mia coscienza e il mondo esterno stavano per annullarsi, come se tra i due mondi si fosse stabilita una connessione invisibile tale da farli pulsare all’unisono. Avevo infatti la percezione che la mia anima si stesse trasformando in tante molecole che staccandosi, ad una ad una dal mio corpo, cominciassero a vagare liberamente come polline nell’aria.
Non so dire in quale punto preciso dello spazio, se negli antri della mia testa o in qualche parte del mondo inafferrabile, perché tale distinzione non aveva alcun senso, vivevo – ma questo termine non so se rende bene l’idea – un incantesimo. Una voce diceva: «Soffriamo!». Di nuovo lo spazio fu sommerso da un aroma forte di cucina, e da un odore di carta e di cera che bruciava, ma questa volta si percepivano anche rumori e suoni, canti e grida d’allegria, sebbene arrivassero attutiti come se provenissero da oltre una porta chiusa. Un odore di mandorle, miele e zibibbo affluiva in quello spazio, mentre il liuto diffondeva una melodia soave, accompagnato dal salterio, dai cimbali, dal tamburo a membrana e da nacchere. Lo scricchiolio leggero di una porta fece diventare la musica più forte e gli aromi più intensi. «Tu?». Risuonò in spazio ignoto come un colpo secco di tamburo.
Una porta si socchiudeva rumorosamente sui propri cardini e un respiro affannoso avanzava. «Tu», ripeteva la voce tagliente, «tu, non dovresti stare qui». «Hai letto i miei messaggi?». Era una voce femminile, dal timbro melodioso, una voce calda in preda a una emozione. L’altra diceva con tono perentorio: «Sì, ma non possiamo. Di là c’è il tuo consorte, va’ che t’aspetta». «Ho detto che venivo da te per un consiglio spirituale». Il tono di quella voce aveva un’aria maliziosa, di complicità sottintesa. Una fragranza accattivante riempì lo spazio, un profumo intenso, avvolgente, riuscì a cancellare ogni altro odore. «Non possiamo…». Diceva quella voce tagliente, e ogni volta che ripeteva quel «Non possiamo», sembrava che la lama di quella voce perdesse il suo filo, e diventasse sempre più rotonda. Il profumo della donna risucchiava in una spirale vertiginosa ogni altra sensazione. Un senso di stordimento mi percuoteva le membra e di nuovo un bacio carico di desiderio m’inondò le labbra. «Siamo due peccatori…». Ripeteva la voce dell’uomo, stretta nella morsa ardente del piacere: «… due miserabili peccatori…». La musica proveniente oltre l’uscio s’era per un attimo acquietata, e s’era levata una voce che berciava: «Fiorenza, Fiorenza!». «Va’, va’», diceva l’uomo riprendendo il tono tagliente nella voce, «t’aspetta…». Il profumo cominciò ad allentare la sua morsa, e pian piano cominciò a svanire. Man mano che il ritmo del cuore riprendeva i suoi battiti, gli oggetti e le pareti della stanza smettevano di pulsare.
continua....