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Prodigio (Racconto onirico VII)

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Bosch - Il diavolo la morte e l'avaro
Peccati...
 Quando rientrai, trovai mio fratello tutto indaffarato. Preferii non dirgli nulla sull’incontro pomeridiano. Vedevo che era preso dai preparativi della cena, e non gli volevo dare motivi di inquietudine. Mi parlava di come voleva disporre i posti: lui si sarebbe sistemato a capotavola per avere le spalle verso la cucina, così poteva servire meglio le pietanze che aveva preparato, su lato sinistro avrebbe fatto sedere Armando, la loro amica sul suo lato destro, io mi sarei sistemato dopo Cecilia, invece Francesca si sarebbe seduta a fianco del ragazzo e, quindi, di fronte a me. Poi mi elencava i piatti che aveva preparato: come secondo c’era uno spezzatino con patate, poi aveva fatto dei carciofi fritti, in più avrebbe messo delle bistecche sulla brace, con un’insalata verde. Il dolce lo avrebbe portato Francesca; avevano due bottiglie di cabernet rosso; avrebbe voluto preparare anche un piatto di pasta, io gli dicevo che forse sarebbe stato troppo; intanto, mi diceva, mettiamo l’acqua, poi si vedrà. Il mio compito era d’apparecchiare, nell’attesa aveva messo i Carmina Burana. Insomma, c’erano tutti i presupposti per una buona serata tra amici.
Quando sentii dalla strada un trambusto di voci e di risate, capii che i nostri ospiti erano arrivati. Dopo qualche istante, infatti, la voce di Armando chiamava Domenico, che con in mano uno strofinaccio se ne stava in cima ai tre gradini che davano l’accesso alla sala da pranzo. «Salve!». Salutò il nuovo arrivato, con una voce leggermente in falsetto, porgendomi una bottiglia di spumante da mettere in frigo: «Si sentiva un buon odorino di carne alla brace!». Dietro c’era la sua ragazza con le mani impacciate da un fagotto, che poggiò sul piccolo tavolo di cucina contro il muro: «Ecco la tana dei lupi!». Disse Francesca, sorridendo, rivolgendosi alla terza persona che stava entrando dopo di lei. «Lupi famelici!». Commentò mio fratello, andando a stringere le mani ai nuovi arrivati. «E assetati… Diamine! Fa proprio calduccio in questa cucina!». Disse la ragazza dalla giacca e pantaloni neri e attillati, infilati ine stivali che arrivano fin sotto le ginocchia. L’aiutai a sfilarsi la giacca. Prima di compiere questo gesto, lei tirò su la chioma di un castano chiaro, scoprendo leggermente le spalle e lasciando che il suo collo bianco e affusolato s’offrisse alla mia vista.
Non avevo neanche finito di sfilargliela, che avvertii una leggera scossa nel cervello: avevo percepito l’identica fragranza della notte scorsa. Sentire addosso a quella donna, mai conosciuta prima, lo stesso profumo che mi aveva avvolto e avvinto nelle due notti precedenti, mi scatenò un’emozione indicibile. Quello che avvertivo era proprio l’odore del suo corpo, quell’odore che ognuno si porta addosso come le impronte digitali. Mi sentii mancare, credo di essere diventato pallido, avvertivo un leggero capogiro e per evitare che le gambe cedessero mi sostenni per un attimo a quel piccolo tavolo lì, facendo attenzione alle giacche che reggevo sull’altro braccio. Nella confusione del momento, mio fratello li aveva subito coinvolti nella disputa pasta non pasta, nessuno aveva notato il mio malore. Domenico aveva condotto le due ragazze a visitare il resto della casa, Armando era rimasto vicino al caminetto per girare la carne sulla griglia. «Allora, Giordano», mi disse Armando, quando mi vide comparire in cucina dopo aver appeso gli abiti nella sala da pranzo, «era da parecchio tempo che non tornavi in paese!».
Non mi ero completamente ristabilito da quel piccolo capogiro, perciò preferivo stare col gomito poggiato sopra il caminetto: «Beh, sì! Erano parecchi anni che non tornavo in paese!». Confermai, guardando la sua figura un po’ tozzetta e arrotondata, mentre girava le braciole con la forchetta: «Che dici? Saranno cotte?». Mi chiese. «Mi sembra di sì…». Cecilia e Francesca erano ricomparse in cucina e chiedevano se potevano rendersi utile. «No, no», protestava mio fratello, recandosi ai fornelli, «voi non dovete fare assolutamente niente! Anzi», disse rivolgendosi a me, «accompagnale in sala da pranzo e falle accomodare! Vai anche tu, Armando, che qui ci penso io!». «Ma che dici? Saranno cotte?». Domandò di nuovo, alzandosi in piedi e con la faccia arrossata, Armando a mio fratello. «Dipende! Facciamocelo dire», diceva mio fratello tutto eccitato, «dalle ragazze come la preferiscono!». «A me piace ben cotta!». Disse Francesca. «A me no! Grazie, l’odore di carne bruciata mi dà fastidio!». Rispose l’altra.
«Allora, seguitimi che vi faccio accomodare!». «Su’, su’, che qua ci penso io!». Diceva mio fratello. Quando ci sistemammo intorno al tavolo, secondo la disposizione decisa, Domenico cominciò a mettere le braciole e la verdura nei piatti, Armando invece s’era preso la briga di stappare la bottiglia e di versare del vino. Chiesi a Cecilia, mentre condivo l’insalata nel piatto, s’era la prima volta che veniva in paese. «Sì». Confermò lei. «Facciamo un brindisi», ci invitava Armando, alzando il calice verso mio fratello, «allo chef!». «Grazie, grazie, troppo buoni…». «Che impressione hai avuto?». Chiesi ancora alla mia vicina. «Ti dirò! Me lo aspettavo un pochino diverso…». «E che Cecilia», s’intromise Armando, «s’immaginava di vivere qualche fatto truculento!». «Ma no», si schermì la ragazza, «mi hai frainteso…». «Armando», precisò Francesca in difesa dell’amica, mentre avvicinava la forchetta alla bocca, «è uno che capisce le cose sempre a modo suo…». «Scusatemi», si difese a sua volta Armando, strizzando e palpitando gli occhi come gli capitava ogniqualvolta s’innervosiva, «non è forse vero che il primo giorno che sei arrivata in paese, hai detto: “Ma qui davvero la gente s’ammazza con l’ascia” ?».
«Diamine! Ma cosa vai a pensare? Figurati! Io scherzavo! Si sentono tante storie violente sulla vostra regione, sicché ci ho scherzato un po'! Tutto qua. È proprio vero che siete dei permalosi!». «Ecco», continuò Armando, facendo palpeggiare di più gli occhi, «ora andiamo a toccare un altro tasto…». «Comunque», intervenne mio fratello, pulendosi la bocca, «un fondo di verità c’è. Delitti efferati ci sono stati in passato… ora non più, ma in passato sì… se ne sentivano…». «A quali ti riferisci in particolare?». Domandò Francesca, rimanendo con la forchetta sospesa in aria. «Qualcuno di voi ha mai sentito parlare del delitto Fioravanti?». «Il delitto Fioravanti…», ripeteva Armando come se andasse a ripescarselo nella memoria, «sì, qualche cosina ho sentito, ma non ricordo i particolari…». «Io non ne ho mai sentito parlare…». Aggiunse Francesca. «Racconta!», lo incitava Cecilia, «A me queste storie mettono i brividi!». «Aspettate però, vado prima a prendere lo spezzatino con i carciofi…».
«Serve aiuto?». Domandò Armando. «No, grazie, tu versi altro vino…». «A me no, grazie», disse Cecilia, «io bevo poco… l’alcol non lo reggo!». «Anche a te», mi chiese, ironicamente, Armando, «fa male il vino?». «A me provoca un effetto positivo!». «Quale?» Domandò Armando, mentre lo versava. «Mi fa entrare in empatia con le persone!». «Porgete i piatti che stanno sotto…». Disse mio fratello avanzando e tenendo tra le mani una grossa scodella. «Ma no», disse Francesca, «possiamo usare gli stessi piatti!». «Non se ne parla nemmeno», protestò mio fratello, «sarebbe un’offesa allo chef! Ogni pietanza va gustata a sé!».
Dopo essersi di nuovo seduto, e aver prima ascoltato i complimenti per la bontà del cibo, Cecilia, che si intuiva che non aveva tanta voglia di mangiare, lo incitò dicendo: «Allora, dai, raccontaci la storia di questo delitto…». Mio fratello, dopo aver sorseggiato del vino, incrociò le mani e cominciò a dire: «Questa storia l’ho sentita raccontare una volta da nostra madre. Lei doveva avere cinque o sei anni», spezzò un po’ di pane, «quindi, è un fatto accaduto pressappoco alla fine degli anni Trenta…», bevve un altro sorso di vino, e continuò: «La famiglia Fioravanti aveva un figlio, era un ragazzo molto intelligente. I genitori lo volevano far studiare, farlo diventare un avvocato, ma non avevano i soldi per mandarlo in città a studiare…». S’interruppe per continuare a mangiare, poi disse: «In questo spezzatino ho messo troppo alloro… forse dovevo farlo rosolare un altro po’…». «No, per me va bene così… è proprio buono…». Disse Armando. «Stavolta mi trovi d’accordo!». Disse Francesca rivolgendosi al suo ragazzo. «Vabbè, ormai è fatta!». Concluse Domenico.
«Allora, dicevi di questa famiglia con pochi mezzi…». Disse Cecilia, quando vide che mio fratello aveva finito di mangiare lo spezzatino. «Infatti», continuò mio fratello, asciugandosi, «proprio in quegli anni era tornato dall’America un amico d’infanzia del padre, e quando si ritrovò in paese, dopo molti anni, non ritrovò più gli amici di un tempo, perciò cominciò a legarsi molto ai Fioravanti… durante la sua permanenza in America era riuscito a mettere da parte una piccola fortuna. Questo amico, frequentando la casa dei Fioravanti, s’accorse di quanto il ragazzo fosse sveglio… “è un peccato che non possa studiare questo giovane”, ripeteva spesso ai genitori… l’“Americano”, chiamiamolo così perché il nome vero non me lo ricordo, un giorno prese da parte il padre, e gli fece più o meno questo discorso: “Ascolta tu hai un ragazzo davvero in gamba ed è un peccato veder sprecata la sua intelligenza; che avvenire può avere se continua così? Un giorno sarà costretto come me ad emigrare e a lasciare la sua terra; io ho messo da parte un bel gruzzoletto, e allora ci ho pensato su un attimo. Ti potrei prestare una trentina di mila lire, tu ci fai studiare comodamente il tuo ragazzo, e quando si sarà laureato e sarà diventato un ottimo uomo di legge, me le restituirai a poco a poco e senza interessi, diventerà il mio vitalizio per la vecchia”. Il padre, all’inizio non voleva accettare la generosità dell’amico, poi ne parlò in famiglia, e alla fine accettarono. Vi ricordo che all’epoca trentamila lire era davvero un bel capitale…». «È vero! Vi ricordate quella famosa canzone?». Disse Armando. «Sììì!!!». Rispondemmo in coro. E Armando cominciò a intonarla. «Dai smettila con queste scemenze!». Lo rimproverò la sua ragazza. Lui mise un po’ il broncio e sorseggiò il vino. «Dunque», disse mio fratello riprendendo il discorso, «il padre, avuto tra le mani quel capitale, oltre a farci studiare il figlio all’università, ci avviò anche una attività commerciale, che nel giro di pochi anni riuscì ad espandere, accumulando una fortuna…». «E l’“Americano”, che faceva nel frattempo?». Chiese Francesca. Mio fratello, dopo aver sorseggiato un po’ di vino, riprese a raccontare: «Da quando aveva iniziato la sua attività, con la scusa di essere troppo occupato dagli affari, il padre gli diceva che non aveva più tempo da dedicargli e gli fece intendere che sarebbe stato opportuno diradare le visite; un bel giorno, l’“Americano”, stanco di questi sotterfugi, non riconoscendo più il vecchio amico, gli fece più o meno questo discorsetto: “Ora che hai accumulato un po’ di soldi, grazie al mio prestito, mi sembra giusto restituirmi la somma che t’ho prestata”». «Beh! Non aveva mica torto!». Osservò Cecilia, versandosi dell’acqua. «L’avrà fatto anche per sondare che intenzioni avesse il suo amico…». Aggiunsi io. Gli altri si dissero d’accordo.
«Tutti l’hanno pensato, infatti, in paese. Il povero “Americano”, man mano che si vedeva sbattere la porta in faccia dall’amico, sempre più veniva dagli altri paesani considerato un “fesso”. Ma come? Gli dicevano ogni giorno, tu devi mangiare pane e cipolla e il tuo amico con i tuoi soldi mangia questo e altro!» «E l’amico, come rispose alla richiesta?». Domandò Francesca. «Pressappoco così: “Scusa, ma i patti non erano che te li avrei restituiti a poco a poco dopo la laurea di mio figlio?”…». «Ma che diamine! Le condizioni erano cambiate, lui aveva fatto il sacrificio per il bene del figlio, e invece d’essere apprezzato, si vedeva ricambiato in quella maniera…». Disse indignata Cecilia. «E non ci scordiamo», aggiunse Armando, facendo vibrare l’occhio e posando la forchetta nel piatto, «che l’amico i soldi glieli aveva prestati per farci studiare il figlio; se gli affari fossero andati in malora, non ci rimetteva pure l’amico, scusate?». «Ma la cosa più tragica fu che, trascorso un mese da quella prima richiesta, l’“Americano” gliela rifece, questa volta in piazza, la vecchia piazza dove siete passati venendo qua, in presenza di testimoni, ma il padre fu preso da un eccesso di rabbia e negò persino di aver ricevuto un prestito; “Che hai?”, gli gridava in faccia: “Una carta scritta? Dei testimoni? E basta con questa storia del prestito! Mi vuoi denunciare? E vai a denunciarmi, vai, vai da chi ti pare!”». «Che ingrato!» Commentò Francesca. «Allora», continuò mio fratello, infervorandosi, «un giorno, l’“Americano” prese da parte il figlio e gli raccontò come il padre lo aveva trattato, poi gli disse di convincerlo a restituire il prestito. Il figlio, che ormai stava quasi per laurearsi, gli fece in faccia una bella risata, e gli disse: “Io? E che c’entro io con i debiti di mio padre? È lui che se, casomai…”. Si dice che non fece neanche in tempo a finire quella frase che l’“Americano” da sotto la cappa sfilò un coltellaccio e sferrò quattro colpi nella pancia del giovane. Prima di morire, fece un’agonia orribile, per tre giorni e tre notti si sentivano le grida di dolore dapertutto, tant’è che quando la gente passava sotto la finestra dei Fioravanti dovevano tapparsi le orecchia per non sentire quelle urla strazianti…».
«Che storia terribile!» Esclamò Cecilia. «Ma scusate, posso fare un’osservazione sciocca?» Domandò Francesca. «Fai pure!» La invitò mio fratello, sorridendo. «Ma secondo voi non era più giusto ammazzare il padre?». «Ammazzare il padre?», obietto tutto indignato Armando, facendo palpeggiare vistosamente gli occhi, «qui si trattava di ammazzare padre e figlio!». «Diamine! Come sei truculento!», commentò Cecilia, e poi, voltandosi dalla mia parte, mi chiese: «Tu che ne pensi?». Nell’attimo in cui lei si girò, fui di nuovo colpito da una leggera fragranza, questa volta però non mi provocò nessun malessere; anzi, non so attraverso quali strani meccanismi agisse, ebbe l’effetto di intensificare le mie facoltà mentali; infatti, quando dissi tutto d’un fiato, come colto da un’improvvisa illuminazione: «Il nostro uomo non poteva concepire vendetta più spietata!». Il primo a sorprendersi di quelle parole fui proprio io. «Perché?» Mi domandò Armando, allungando la mano per riempire i bicchieri. «Già, perché?» Gli fece eco la sua ragazza. Il bello è che nemmeno io sapevo sul momento cosa rispondere! Perciò, prima di parlare, svuotai il bicchiere, mi pulii le labbra, raccolsi alcuni pensieri sparsi, e infine dissi: «Perché uccidendo il bene più prezioso di quella famiglia, la loro stessa ragione di vita, voglio dire, è riuscito a svuotare la loro esistenza di ogni senso, e ha condannato i suoi genitori a espiare a vita la colpa. Non so che fine abbia fatto quella famiglia, ma non è difficile immaginare che la madre sia impazzita dal dolore e dalla colpa, e il padre caduto in uno stato tale di prostrazione da cui non si sarà più sollevato, o viceversa, poco importa; l’americano, colpendo il ragazzo, a cui aveva voluto dare una possibilità di sottrarsi alla sua vendetta, ha voluto ridurre quei genitori a due morti viventi, a due ombre agonizzanti che si trascinano nella mente il ricordo di quel delitto orribile…».
«È vero! Diamine! Non ci avevo pensato!» Commentò Cecilia. «Ma perché sei convinto che l’“Americano” in un primo tempo non aveva intenzione di coinvolgere anche il figlio nella sua vendetta?» Domandò mio fratello. Prima di rispondere, allungai il braccio per prendere la bottiglia d’acqua, e m’avvicinai con la testa dalla parte di Cecilia, sentendo ancora di più quell’effluvio emanare dal suo corpo: «Perché ho seguito un mio ragionamento: il padre del ragazzo era stato contagiato dall’avidità, la madre dall’accidia, il figlio dalla superbia, e lui dall’ira…». «Ora cosa c’entra questa storia dei vizi capitali?» Obiettò mio fratello, come se stesse fiutando qualche mia macchinazione. Non capivo neanch’io perché, in effetti, avessi tirato di colpo in ballo quell’argomento, eppure era come se in testa avessi un mio disegno, di cui non riuscivo ancora ad afferrarne i contorni. Guardai a lungo i presenti, bevvi l’acqua, e infine cominciai a parlare: «La causa di tutto è stato il prestito… quel prestito ha trasformato per primo il padre in un uomo d’affari, abile ad accumulare danari, ma anche spietato e accecato dal guadagno; e quindi ha finito con il dannare quell’uomo; la donna poteva aprire gli occhi al marito, fargli capire che non era giusto avere quel comportamento nei confronti di un amico che s’era dimostrato così leale e generoso nei loro riguardi; ma preferì non fare nulla, e chiudersi nel silenzio; chissà, anche a lei; quell’improvvisa ricchezza piovuta addosso, l’accecò; infine, il figlio, un ragazzo intelligente, nel quale l’americano aveva proiettato se stesso, e al quale, come un buon padre, aveva voluto dare i mezzi per riuscire nella vita, quei mezzi che lui era riuscito a farsi veleggiando verso l’Oceano; il vero tradimento l’ha subito da lui, non dal padre: trattandolo in quel modo, con sufficienza, guardandolo dall’alto in basso, come si guarda un poveraccio che con la mano tesa viene a chiedere un’elemosina, l’ha umiliato profondamente, ma soprattutto l’ha profondamente deluso; aveva contato sulla sua intelligenza per indurre il padre a fare la cosa giusta, la cosa che ogni uomo di buon senso avrebbe fatto; invece no, lui ride, ed è una risata impastata di superbia, della sua aria di superiorità; dei tre, il figlio è il più colpevole, ed è quello che ha pagato più di tutti; è la sua superbia ad accecare d’ira il loro benefattore; e sferra i suoi colpi al ventre, senza pietà; un colpo per ogni peccato commesso…».
Mio fratello scuoteva la testa, non aveva l’aria di condividere le mie parole, anzi, sembrava piuttosto contrariato. «È un’interpretazione suggestiva e plausibile! Bisogna riconoscerlo» Ammise Cecilia. «Eh!», Fece Armando con l’aria di chi dà ad intendere di saperla lunga: «Giordano è un narratore, e sa cogliere quelle sfumature che a noi sfuggono. Non è vero?». «Davvero?» Domandò Cecilia, sorpresa. «Ogni tanto mi diletto a scrivere qualche piccolo racconto, ma senza grandi pretese...». Mi schermii io. «Cosa stai scrivendo adesso?» Chiese Armando. «A dire la verità, più che scrivere sto raccogliendo spunti per una trama…». «Perché non ce ne parli?» M’invitò Francesca. «Mi farebbe piacere!» Dissi io, accendendomi una sigaretta argentina: «Ma non ho molto da raccontare…»,.mandai fuori una boccata di fumo, «sono solo spunti scoordinati…». «Dai!», mi incitò Cecilia, «tu ci racconterai questi spunti… magari ti può aiutare a precisare meglio la trama…». «Va bene!» Dissi senza troppa convinzione: «Però se rimarrete delusi non dite che non ve lo avevo detto!». «Sai che facciamo, se siete d’accordo?», propose Armando, «siccome comincia fare un po’ fresco, ci trasferiamo in cucina attorno al focolare, e lì apriamo lo spumante e mangiamo il dolce. Che ne dici Domenico?». «Per me non ci sono problemi…». Acconsentì mio fratello. «Che bello!», disse entusiasta Cecilia: «Così possiamo evocare quelle atmosfere suggestive alla James, il mio scrittore preferito!».
continua...
 


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