di Fabio Iraldo
Professore Associato presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Fabio Iraldo ricopre anche il ruolo di Research Director presso IEFE (Institute for Environment and Energy Economics dell’Università Bocconi di Milano) ed è Coordinatore del comitato scientifico della Rete Cartesio. Nel 2007 ha fondato ERGO (Energie e Risorse per la Governance dell’Organizzazione). www.fabioiraldo.itCon la Raccomandazione 2013/179/CE è stata ufficialmente introdotta nell’Unione Europea la Product Environmental Footprint, una metodologia che regolamenta il calcolo, la valutazione, la convalida di parte terza e la comunicazione a tutti gli stakeholder dell’impronta ambientale dei prodotti e dei servizi.
L’approccio seguito dalla Commissione mette a disposizione delle imprese un metodo che consente di elaborare una rosa di indicatori ambientali relativi alle principali categorie di impatto ambientale (emissioni di gas ad effetto serra, efficienza nell’uso delle risorse, impronta idrica, etc.) che il produttore, previa convalida effettuata da un soggetto terzo, è legittimato a utilizzare liberamente a fini competitivi, in particolar modo nella comunicazione di marketing e nei confronti del mercato. La possibile valorizzazione delle impronte ambientali è ad ampio spettro: dall’indicazione sul packaging del prodotto, fino all’utilizzo in documentazione ufficiale atta a comprovare il rispetto di criteri inseriti dei bandi per appalti pubblici (cosiddetto Green Public Procurement).
La metodologia della Commissione si propone, come obiettivo principale, di fornire agli interessati degli orientamenti tecnici quanto più dettagliati possibile per l’effettuazione dello studio, in modo tale da aumentare la comparabilità di studi e risultati fatti da analisti diversi su prodotti dello stesso tipo. In altre parole, laddove i differenti metodi di calcolo preesistenti fornivano uno spettro di alternative per una determinata scelta metodologica per lo svolgimento dello studio LCA, la metodologia PEF si propone si fornire un’unica alternativa o requisito (o comunque di fornire ulteriori orientamenti) per favorire la conduzione di studi sulla PEF più coerenti, esaurienti e riproducibili.
La Raccomandazione 2013/179/EU fornisce sia orientamenti generali per il calcolo della PEF, sia requisiti metodologici specifici delle categorie di prodotto da utilizzare in regole di categoria relative all’impronta ambientale dei prodotti (PEFCR, Product Environmental Footprint Category Rules). Le PEFCR sono un’estensione e un’integrazione necessaria degli orientamenti più generali per gli studi sulla PEF ed hanno l’obiettivo di fornire dettagliate linee guida tecniche su come condurre uno studio per la valutazione di impatto ambientale di prodotto. In pratica, le PEFCR accompagnano e completano le linee guida generali fornendo indicazioni specifiche a livello di categoria di prodotto. Attualmente, è stata sviluppata un’unica PEFCR per l’industria della carta nell’ambito delle prove pilota della Comunità Europea, essa è scaricabile da http://www.cepi.org/.
Come anticipato, nel modello proposto dalla metodologia PEF, come nel caso dell’analisi LCA, il concetto di ciclo di vita prende in considerazione tutti i flussi di risorse e gli interventi ambientali associati a un prodotto dal punto di vista della catena di approvvigionamento. Esso include tutte le fasi che vanno dall’acquisizione delle materie prime alla trasformazione, alla distribuzione, all’utilizzo e ai processi di fine vita, nonché tutti gli impatti ambientali, gli effetti sulla salute, i rischi legati alle risorse e gli oneri per la società associati pertinenti. Tale approccio è essenziale per illustrare i possibili trade-off tra vari tipi di impatti ambientali legati a specifiche decisioni politiche e gestionali e contribuire a evitare un trasferimento involontario dei carichi ambientali (cosiddetti cross-media effects).
Benché la metodologia PEF sia di recentissima pubblicazione (Aprile 2013), essa non costituisce un riferimento completamente nuovo per la realizzazione di valutazioni riguardanti l’intero ciclo di vita di prodotti e servizi, in quanto essa trae inspirazione dai numerosi metodi di contabilità ambientale ampiamente accettati, quali, fra gli altri, le norme ISO, in particolare ISO 14044 (2006); il manuale del sistema ILCD (International Reference Life Cycle Data System); il protocollo sui gas a effetto serra (GHGP 2011); i principi generali per una comunicazione ambientale sui prodotti di massa BPX 30-323-0 e le specifiche per la valutazione delle emissioni di gas a effetto serra prodotte durante il ciclo di vita di beni e servizi (PAS 2050, 2011).
Come afferma Michele Galatola, responsabile delle Environmental Footprint della DG Environment, “la Commissione Europea sta puntando su questo strumento come leva principale per accrescere la quota dei prodotti verdi nel mercato unico, invitando le imprese a calcolare l’impronta che i propri prodotti lasciano dalla culla alla tomba”. La diffusione di questa prassi da parte delle aziende dovrebbe aiutare a superare le principali barriere che oggi ostacolano la diffusione delle tendenze della Green Economy. Da un lato, infatti, le PEF dovrebbero rafforzare la credibilità delle aziende nei confronti dei consumatori e dei clienti, prevenendo il fenomeno del Greenwashing, che oggi costituisce uno dei principali freni allo sviluppo dei prodotti verdi sul mercato.
Il “Greendex” 2013, indice sviluppato dal National Geographic Institute, dimostra infatti che la prima ragione in assoluto, per cui i 14.000 consumatori intervistati non scelgono prodotti “sostenibili”, è l’inaffidabilità chiaramente percepita nelle dichiarazioni dei produttori (che farebbero “false claims”). Questa tendenza a comunicare intensamente sugli aspetti ambientali, in grado di aumentare fortemente il rischio di greenwashing, è tutt’altro che sopita nell’attuale fase di declino degli investimenti pubblicitari, se si pensa che circa il 10% delle inserzioni su carta stampata hanno un contenuto spiccatamente green, come emerge da una ricerca del nostro Osservatorio IEFE.
Dall’altro, la Commissione Europea ha più volte dichiarato di voler definire un quadro di incentivi e premialità per chi deciderà di raccogliere la sfida della PEF (e della metodologia gemella dell’OEF, Organisation Environmental Footprint), in modo che sia premiato soltanto chi prova in modo serio e credibile di poter vantare performance ambientali relativamente migliori della media del proprio settore (approccio del “benchmark”).
Nel nostro Paese sono molti coloro che stanno dimostrando di credere in questa prospettiva. Innanzitutto il versante degli “utilizzatori”, ovvero le imprese, con un numero sempre crescente di grandi e piccoli player di mercati intermedi e di largo consumo che hanno sviluppato e sottoposto a certificazione di parte terza la propria impronta ambientale (basti pensare a Luxottica per gli occhiali Rayban, Carlsberg per molte proprie birre, etc.).
In secondo luogo gli “intermediari” tra la competitività delle imprese e la difesa dei consumatori, ovvero le istituzioni, con il Ministero dell’Ambiente in prima linea nel supportare più di duecento progetti di sviluppo da parte del mondo imprenditoriale, attraverso il proprio programma di valutazione dell’impronta ambientale, nel cui ambito sono stati erogati recentemente 4 milioni di euro di finanziamento a imprese impegnate su questo fronte. Anche le Regioni italiane sostengono in modo convinto la diffusione dell’impronta ambientale, soprattutto fra le piccole e medie imprese e i distretti industriali, facendosi promotrici di una rete (CARTESIO – Cluster, Aree Territoriali e Sistemi di Impresa Omogenei) che sta sperimentando sul campo la PEF comunitaria con il progetto europeo (di cui Ervet è partner).
La principale incognita rimane legata alla reazione dei “destinatari” dell’impronta ambientale. Saranno disposti i comuni cittadini, non esperti della materia, ad accettare come guida delle proprie scelte di consumo uno strumento completo e rigoroso come la PEF? Il percorso che potrà portare a questo obiettivo è appena cominciato.