Malinowski (1922), l’inventore del concetto di osservazione partecipante, notava che l’osservazione aggiunge carne e sangue al lavoro scientifico. Tuttavia, l’espressione ‘osservazione partecipante’ è in realtà un ossimoro, in cui la partecipazione, cioè il tentare di diventare un ‘nativo marginale’, e l’esigenza di essere scientificamente oggettivo secondo i canoni del pensiero razionale occidentale, sono messi insieme in una combinazione instabile, che può perfino condurre al collasso dell’identità (Kondo 1986) o alla depressione tropicale (Malinowski 1922).
Mentre Malinowski si limitava ad affermare che i nativi vedono gli antropologi come un male necessario o una seccatura, Vine Deloria jr., studioso e attivista politico Dakota morto qualche anno fa, aveva parole ben più sarcastiche e certo più misogine. Secondo il quadretto che dipinse nel 1969, gli antropologi, accompagnati da mogli con i capelli unti e dritti come spaghi ma con un Quoziente Intellettivo di 191 che sparano frasi dove persino le preposizioni hanno undici sillabe (in inglese la parole di uso corrente hanno in genere una o due sillabe), sono un male ‘necessario’ quanto uno sciame di voraci cavallette che piomba l’estate a tormentare gli indiani nelle riserve degli USA. Negli anni 1970, il cantante country-and-western e attore Lakota Floyd Red Crow Westermann lanciò una canzone molto popolare nei powwow che esprimeva il risentimento tribale contro gli ‘Anthros’ (antropologi), che non capiscono i nativi e scrivono libri che li danneggiano. Non dobbiamo dimenticare che sia Deloria che Westermann erano militanti nazionalisti tribali, e che entrambi erano ben inseriti nell’establishment, uno come accademico e l’altro come cantante-attore (ha lavorato anche con Sting e nel blockbuster New Age Balla coi lupi). Comunque, sia che esista un grano di verità, sia che accademici e intellettuali indigeni cerchino di scalzare gli intellettuali non nativi per crearsi un territorio privilegiato proprio, nel perpetuo gioco della distinzione alla Bourdieu, il fatto è che questo risentimento non si è ancora del tutto spento, come chiariva lo studioso canadese Plains Cree Alfred Young Man, parlando a un convegno a Perugia (2004) su ‘L’Antropologia come è vista dalla Prospettiva Nativa degli indiani americani’.
D’altro canto è assai nota, nell’ambito dell’antropologia americana e canadese, la battuta che ‘la famiglia nativa americana è composta da padre, madre, figli e antropologo di famiglia’ di solito non nativo. Questa battuta accenna al fatto molte famiglie ‘aristocratiche’ indigene, che la comunità abbia una stratificazione sociale incipiente oppure accentuata è lo stesso, vogliono che la storia della loro famiglia sia ricordata nei libri. E’ un fatto confermato da un notevole numero di biografie contemporanee e memorie di famiglia pubblicate da case editrici universitarie ed è visibile anche nell’antropologia del Pacifico, presso i Maori, i Samoani, gli aborigeni australiani, ecc. Uno studioso diventa l’antropologo di ‘fiducia’ della famiglia e si lega ad essa come un antico bardo o un cronista di corte a una casata nobile, in un patto che illustra un perfetto rapporto di dono alla Mauss. L’antropologo ha carriera certa e campo di studio difeso da intrusi accademici e la famiglia usa il potere che gli dà avere un intellettuale istituzionale al suo personale servizio (ma pagato dalle università, e garante della ‘oggettività’) per combattere le sue guerre politiche dentro e fuori la sua comunità. Nel suo fondamentale studio sui Makah della Olympic Peninsula, Elizabeth Colson (1974) ha ben descritto come le famiglie tentassero di usarla nella perpetua guerra del pettegolezzo per innalzare il proprio status e danneggiare quello dei rivali.
Da questi pochi esempi si può vedere come il rapporto tra antropologo e comunità che vive sul suo campo di lavoro può essere piuttosto complesso e pieno di trappole. Parlerò altrove delle linee guida deontologiche, ma tra le trappole che un antropologo può trovarsi davanti c’è il rifiuto della comunità a lasciarlo entrare perché non è in grado di mostrare il vantaggio politico immediato di cui i politici locali possono fruire, oppure gli stessi lo considerano un pericolo se vuole lavorare tra i rivali politico-religiosi o gli emarginati nella comunità. Mi limito a ricordare che, nella famosa querelle tra la Mead e Friedman, la Mead in quanto donna si trovò a lavorare con ragazze ai margini della società samoana, mentre Friedman, in quanto uomo, parlava solo con i capi. Per cui entrambi vedevano un lato ‘veritiero’ della società isolana, ma legato a dinamiche di genere e di rapporti di potere.
Le aree cattoliche dell’Irlanda del Nord sono un’altra area piuttosto difficile dove fare lavoro su campo, come pure qualsiasi altra zona di frizione tra due comunità, oppure dove un numero notevole di persone vive nell’illegalità (politica, immigrata o criminale non importa): questi sono anche luoghi dove fare domande è poco salutare, anche se fare domande non è il solo modo per comprendere opinioni e sentimenti. Bisogna saper tenere occhi e orecchie ben aperti e bocca chiusa. Dimenticatevi i questionari e le interviste formali, imparate subito i nomignoli più o meno insultanti che i locali usano contro i rivali, ma senza esagerare. Mentre i nomignoli vi fanno entrare nel gruppo ‘noi’, anche se ai margini, l’esagerazione vi denuncia come ‘estraneo’, una situazione sempre spiacevole, che può anche trasformarsi in accuse di essere una ‘spia’, ‘uno che fa carriera su di loro’, un pollo intellettuale da ingannare e sfruttare. Quest’ultima situazione è sempre e comunque presente in qualsiasi lavoro su campo, ma esserne consapevoli e vedere la cosa con sano cinismo aiuta ed evita illusioni e delusioni.
Ho vissuto in Ardoyne, Belfast e nel Bogside, (London)Derry, Irlanda del Nord, per un certo tempo tra il 1981 e il 1984. La gente in quei quartieri, oltre a tutto scossi da fortissime tensioni etnico-politiche, aveva le stesse reazioni descritte dalla Okeley (1983) dei Traveller-Gypsies (zingari irlandesi etnici ma non rom, che vivono da nomadi e sono un risultato delle guerre religiose del XVII secolo). Gli abitanti di questi quartieri cattolici giudicavano il mio comportamento più banale e qualsiasi menzione di ‘scrivere’ produceva una reazione difensiva, ma non avevano alcuna obiezione alle foto e ai video, al contrario mi venivano a chiamare per immortalare le loro imprese e gli eventi familiari. Dopo che una mia foto fu scelta come la migliore da mettere sulla lapide di un personaggio rispettato nel quartiere (secondo il metro locale, aveva partecipato alla rivolta di Pasqua del 1916), le mie azioni salirono alle stelle e molti ci tenevano a farsi la foto, perché non si sapeva mai che potesse servire per altri funerali. Questa apparente contraddizione la spiego con il fatto che la maggior parte della comunità era convinta che leggere più di un libro in tutta la vita era un sicuro sintomo di un grave caso di snobismo borghese, mentre le foto (non c’erano ancora i videofonini, ma c’erano le kodak) erano un modo comune per fissare gli eventi della vita. Così raramente prendevo appunti e registravo solo in interviste formali con funzionari del Sinn Fein o cantanti nei pub, eventualmente scrivendo note in seguito.
Uno dei problemi che si parano di fronte all’osservatore partecipante è se rivelare tutto quello che uno viene a sapere oppure no, informazioni sensibili di natura religiosa, politica o ‘illegale’. Un ufficiale americano di alto rango in pensione, per esempio, rivelò alcuni dettagli sul suo servizio nel Sudest asiatico durante un’intervista formale. Quando gli inviai la trascrizione delle registrazioni lui preferì cancellare quei dettagli e io ovviamente lo accontentai. I giornalisti sostengono che, anche se devono proteggere l’anonimato delle loro fonti, cosa che peraltro non sempre avviene, come mi è capitato di persona con una giornalista (si fa per dire) del Mattino di Padova, essi devono rivelare ogni genere di notizie in nome del diritto del pubblico ad essere informato. Possono gli antropologi appellarsi alla stessa deontologia? Vedremo altrove cosa dicono le linee guida di importanti associazioni antropologiche internazionali. Io ritengo che, senza un consenso informato esplicito, gli antropologi non hanno il diritto di rivelare informazioni sensibili, anche se in pratica sono stati commessi ogni genere di inganni e abusi e in qualche luogo agli antropologi è negato l’accesso tout court a causa di questa politica miope e para-colonialista della terra bruciata, cioè, io pubblico e chi se ne frega se ho bruciato il campo ai colleghi.
A proposito dell’approccio personale, Honigmann (1976:244) osserva che in certe circostanze il suo valore sta nella sua unicità e irripetibilità, e aggiunge che “la sensibilità di un osservatore, la sua profondità di pensiero, abilità e libertà speculativa, immaginazione, intuito, flessibilità intellettuale, e il grado in cui il pensiero incorpora sia elementi affettivi che sostantivi, e capacità simili costituiscono i fattori chiave nella produzione della conoscenza”. Anche se i metodi di ricerca oggettivi hanno i loro meriti, essi possono in effetti condurre a commettere errori sensazionali. Una ragione per cui questo avviene è che la gente mente spesso, non solo agli exit polls (uno dei casi più famosi avvenne quando fu eletto il presidente americano Truman), ma anche in altri tipi di inchieste. Una collega mi raccontava che quasi tutte le badanti e cameriere ucraine e moldave di Padova segnavano una croce nella casella ‘single’ nel modulo sullo stato civile dei Servizi Sociali del Comune. I funzionari comunali ne furono molto sorpresi, ma non riuscendo a spiegarselo accettarono il dato al valore facciale e si comportarono di conseguenza nelle valutazioni sulla situazione delle badanti a Padova. Dato che la collega ha sposato un russo, parla il russo e ha svolto lavoro su campo con le badanti e cameriere moldave e ucraine, sapeva bene che la maggioranza sono sposate, spesso più di una volta, o divorziate. Molte si sono messe con uomini diversi dopo aver lasciato il marito e i figli in patria. Quando la collega chiese alle badanti perché avevano segnato la casella dei ‘single’, loro hanno risposto che questo le faceva sentire ‘più libere’ (Mazzacurati 2004, comunicazione personale). Essere ufficialmente riconosciute come ‘single’ dal Comune era una specie di sigillo alla nuova vita che si erano create e che si gestivano con infinitamente maggiore autonomia di quanto avessero mai potuto fare in patria. Quelli che gestiscono le politiche dell’immigrazione a Padova non ne hanno idea.
(bibliografia alla fine della parte II)