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Professione antropologo. Il lavoro su campo II

Creato il 01 settembre 2011 da Davide

Un altro fattore che influenza l’osservazione partecipante è il genere dell’osservatore. Abu-Lughod (1986) nel suo lavoro con i beduini egiziani osserva che il fatto di non essere sposata la inchiodava nel ruolo di ‘figlia’. Anche Kondo (1986) si trovò incastrata nello stesso ruolo nella casa dei suoi ospiti giapponesi, prima del suo ‘collasso d’identità’ e dell’inizio del processo di distanziamento, benché lei fosse americana di origine giapponese. Entrambe le autrici mettono in risalto l’importanza dei rapporti di potere nel lavoro su campo: mentre l’antropologo è sempre alla mercé dei nativi, le donne hanno la probabilità di trovarsi dal lato debole del rapporto, specialmente se lavorano in una società ‘tradizionale’, anche se la stessa Abu-Lughod rileva che proprio la sua mancanza di potere nella comunità beduina le ha impedito di forzare la gente a discutere di cose di interesse accademico canonico, ma di nessun vero interesse per entrambe le parti interlocutrici, l’autrice e la beduina. Il risultato è stato uno squarcio sulla parte femminile della società beduina che è diventato un must degli studi di genere, che un antropologo maschio mai avrebbe potuto descrivere, ammesso che ne avesse avuto l’interesse. Infatti, è nota la predilezione degli antropologi classici di trattare quasi solo con i leader, maschi, della comunità; secondo il padre nobile dell’antropologia Edward Tylor una donna poteva diventare antropologa solo ‘tramite matrimonio’, un’opinione condivisa da moltissimi colleghi. Tuttavia, nel contesto in cui lo diceva, Tylor intendeva lodare il lavoro che Mathilda Coxe Evans Stevenson (1849-1915) aveva compiuto con il marito James Stevenson, quando si era accorto che la maggior parte del lavoro era in realtà opera della moglie.

Pioniera dell’etnologia americana, Matilda Coxe Evans Stevenson fu la prima donna a lavorare nel Sudovest americano ed è nota soprattutto per la sua fondamentale opera sugli Zuni. Autodidatta, non prese mai un riconoscimento formale accademico, il che rende l’alto livello del suo lavoro ancora più notevole, e fece parte della prima spedizione di ricerca del Bureau of Ethnology nell’Ovest ancora squassato dalle guerre indiane. Evans Stevenson fu il primo etnologo americano a considerare le donne e i bambini ‘degni di attenzione’ e ottenne in quanto donna informazioni non accessibili ai colleghi maschi. Si sentiva spesso intralciata nella professione e nei finanziamenti, almeno all’inizio, e lottò strenuamente per l’eguaglianza professionale femminile, diventando la prima antropologa governativa pagata, anche se considerevolmente meno dei colleghi. Era considerata cocciuta, priva di umorismo e prepotente, e c’è da capirla vista la disparità di trattamento. Era comunque una donna formidabile e talvolta anche troppo assertiva. Interessata primariamente alla religione pueblo, particolarmente segreta e segregata, una volta convinse a ombrellate dei preti Hopi a lasciarla entrare in una kiva, luogo religioso precluso alle donne, per assistere a delle cerimonie. Un’altra volta salvò dalla morte un ragazzo zuni accusato di stregoneria e torturato in piazza, sfidando lei stessa la possibilità di essere uccisa. In ogni caso riuscì ad avere un buon rapporto con gli zuni per oltre 25 anni e riuscì a presenziare cerimonie sbarrate alle donne e a descriverle nella sua monumentale monografia. Possiamo dire che la Evans Stevenson, come altre dopo di lei, in quanto donna ‘di autorità’ rappresentò anche un esempio di ‘maschio onorario’, un ruolo in cui le antropologhe, specialmente se non sono sposate e non hanno figli, posso facilmente trovarsi e non solo nelle società tradizionali.
Mi sono trovata più di una volta a parlare con il leader politico di turno, in Italia e altrove, mentre le donne locali spignattavano e svolgevano tutte quelle attività necessarie alla riproduzione dei maschi della comunità, che mi erano precluse in quanto ‘ospite’ e, poiché ‘autorevole’, in quanto maschio onorario. Devo anche dire che in quanto single senza figli, a proposito di un altro ‘luogo’ sociale dove un’antropologa si può trovare, ho trovato alcuni dei miei migliori informatori tra i bambini e i ragazzi, anche qui soprattutto maschi, in cambio di piccoli (per me) doni. La situazione cambiava se cedevo gran parte del mio ruolo di ospite, lavorando come le altre, e se parlavo di argomenti che solo le donne possono toccare tra loro, come la salute femminile, le esperienze amorose, la pigrizia cialtrona e la malafede dei maschi e così via, regalavo dolciumi, sigarette, liquori dolci, bigiotteria e altri cianfrusaglie che può comprare una ‘parente’ anche se alla lontana, o un’amica, ecc., qualche romanzo rosa economico o rivista gossipara (le donne leggono più degli uomini anche in ambienti proletari), facevo un po’ di baby-sitting gratis e così via. Bisogna cercare sempre di capire ‘dove si è’ socialmente e dare qualcosa in cambio di quello che loro ti danno (rapporto, informazioni, simpatia ecc.). Il problema consiste nella giusta mistura tra ‘rapporto umano’ e ‘rapporto di lavoro’, dato che il ‘diventare nativo’ (turn native) è considerato una gaffe metodologica/scientifica grave.

Fino a qualche tempo fa si era d’accordo negli ambienti accademici che l’osservazione partecipante avvenisse in un luogo lontano da casa – geograficamente o socialmente. Relativamente di recente la sociologia e l’antropologia socioculturale hanno cominciato a mescolare i loro campi di lavoro, anche se i rispettivi ‘sguardi’ sono ancora piuttosto differenti. Oltre a ciò, negli ultimi decenni, diversi schemi migratori e origini etniche hanno confuso la netta divisione di lavoro tra le due discipline. Grewal e Kaplan (1994) tra gli altri, notavano che il locale e il globale hanno spesso parametri indefinibili o indistinti e che sono costrutti permeabili. I sociologi e gli antropologi urbani hanno ripensato negli anni 1990 ai rapporti tra centro e periferia, tra spazi urbani e rurali e la distinzione offuscata tra di essi. Termini come deterritorializzazione, iperspazio, luogo iperreale e frasi come ‘periferizzazione al Centro’ sono nati per descrivere queste nuove realtà. “La consapevolezza della crescente dispersione, decentramento, interpenetrazione, e generale complessità delle comunità globalizzate e transnazionali si riflette in antropologia come una crescente preoccupazione identitaria … La cultura si sta progressivamente deterritorializzando” (Kearney 1994:556-57).
Così può accadere, per esempio, che la strategia di politica globale dei popoli indigeni trasferisca il campo di lavoro antropologico – e quindi l’osservazione partecipante – dal loro territorio a quello dell’osservatore e persino, in qualche caso alla lettera, a casa sua. Anche se i miei ‘ospiti-informatori’ in generale non se ne rendevano conto, essi stavano rovesciando il rapporto osservatore-osservato e ho trovato le loro reazioni da ‘estranei’, da foresti qui, altrettanto interessanti del loro comportamento da ‘indigeni’ a casa loro.

Negli anni 1990 Marcus dimostrò l’emergenza dell’etnografia multi-situata, basata sull’osservazione chel’oggetto di studio è in definitiva mobile e situato in modo multiplo(1995:102). L’autore osservava poi: “La riformulazione teorica dei concetti di spazio e luogo nella ricerca etnografica, per la quale il lavoro dei geografi culturali e dei sociologi è stata un’ispirazione e un rinforzo, ha stimolato l’apertura dei generi istituzionali della ricerca antropologica a costruzioni multi-situate di progetti di ricerca etnografica” (1995:104).

I nativi non sono più incarcerati geograficamente, immobili ma disponibili all’outsider mobile (Appadurai 1988), né sono gli osservati analfabeti, che semplicemente riferiscono a un osservatore che prende appunti. Oggi i nativi viaggiano, scrivono, dipingono, parlano alla radio e la TV, usano il cellulare e il blackberry, il computer e i social network, vivono alla porta accanto e talvolta a casa tua e in qualche caso insegnano all’università o fanno politica nella tua città. A questo punto il problema consiste nel decidere dove tracciare il confine tra osservatore partecipante e sostenitore di una causa. Si sta aprendo un intero modo nuovo di considerare l’osservazione partecipante, in un campo di lavoro dove persino la “capanna di fango” di Nigel Barley (1986) può esibire una padella satellitare. (continua nelle prossime puntate)

Riferimenti (della prima e seconda parte)

ABU-LUGHOD, LILA. 1986. Veiled Sentiments: Honor and Poetry in a Bedouin Society. New York: Oxford University Press.
APPADURAI, ARJUN. 1988. Putting hierarchy in its place. Cultural Anthropology 3:36-49.
BARLEY, NIGEL. 1986. The Innocent Anthropologist. Notes from a Mud Hut. London: Penguin Books.
Carrithers, Michael. 1990. On ethnography without tears. Current Anthropology 31:53-55.
DELORIA, VINE JR. 1972 [1969. Custer Died for your Sins]. Custer è morto per i vostri peccati. Milano: Jaca Book.
GREWAL I, CAPLAN, C. eds. 1994. Scattered Hegemonies: Postmodernity and Transnational Feminist Practices. Minneapolis: University of Minnesota Press.
HONIGMANN, JOHN J. 1976. The Personal Approach in Cultural Anthropological Research. Current Anthropology 17:243-261.
KEARNEY, M. 1995. The Local and the Global: The Anthropology of Globalization and Transnationalism. Annual Review of Anthropology 24:547-565.
KONDO, DORINNE K. 1986. Dissolution and Reconstruction of Self: Implications for Anthropological Epistemology. Cultural Anthropology 1:74:88.
MALINOWSKI, BRONISLAW. 1922. The Argonauts of the Western Pacific. An Account of Native Enterprise and Adventure in the Archipelagoes of Melanesian New Guinea. London: Routledge & Kegan Paul. [M. Arioti. 2004. Argonauti del Pacifico Occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitive. Torino: Bollati Boringhieri].
MARCUS, GEORGE E., 1995. Ethnography in/of the World System: The Emergence of Multi-sited Ethnography. Annual Review of Anthropology 24:95-117.
MAZZACURATI, CRISTINA. 2004. Alcune considerazioni sui dati di registrazione dello stato civile delle comunità moldava e ucraina nel Comune di Padova. (manoscritto, comunicazione personale).
OKELEY, JUDITH. 1983. The Traveller-Gypsies. Cambridge: Cambridge University Press.
Parezo, Nancy J. 1999 Matilda Coxe Stevenson: Pioneer Ethnologist. In Nancy J. Parezo, ed. Hidden Scholars: Women Anthropologists and the Native American Southwest. Albuquerque: University of New Mexico Press.
YOUNG MAN, ALFRED. 2004. Anthropology as viewed from the North American Indian “Native perspective”, XXVI International Conference of American Studies, Perugia, 7, 8, 9, 10 Maggio.


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