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Gaia Conventi
Gaia Conventi si reputa una blogger e si confessa una giallista. Ha scritto e pubblicato ma detesta sbandierare titoli, per quello c’è Google.
Gestisce Giramenti, blog di satira letteraria, un angolino di web apprezzato dai cattivi soggetti e detestato dall’acquario editoriale. A conti fatti, un piccolo successo.
L'opinione di Gaia.Inchiostro bianco m’invita a partecipare a questo progetto e, lo ammetto, mai proposta fu rivolta a persona meno idonea. Perché sì, lo confesso, non vado al cinema. Non ci vado perché il buio – come quando si forza la gallina a mettere la testa sotto l’ala – mi fa dormire. All’istante. Ho tentato d’andare nelle sale parrocchiali, contando sulla scomodità delle sedie in legno. Non ci crederete: ho dormito anche in quelle occasioni; sono riuscita a russare un intero Salvatores, attirandomi le critiche delle ultime file. Insomma, non c’è speranza. Sono destinata a essere uno spettatore comatoso.
Mi sono quindi procurata un abbonamento a Sky, sul mio divano si dorme comodi e tra un pisolino e l’altro posso buttare l’occhio a un libro, fare le parole crociate, sgranocchiare qualcosa... Insomma, come spettatrice non sono attendibile, forse perché preferisco farmi il film da sola: leggendo. E leggo molto, soprattutto di notte. Sveglia come non mai, nonostante il tepore del piumone e la lucina mortifera sul comodino.
Sono quindi costretta a rivelarvi che non guardo film italiani, gli attori italici sono credibili quanto un predicatore di pentole. Non mi lascio tentare dai drammoni e, se si piange, lascio piangere altri spettatori.
Nei film, come nei libri, adoro l’azione, i buoni dialoghi e la trama che regge. Per me vanno benissimo i vecchi Hitchock presents e, per rimanere in tema, vi svelo che la trasposizione cinematografica de Gli uccelli – del 1963 – ha più senso del racconto della du Maurier da cui è tratto. Anzi, a dirla tutta, l’unica cosa che le due faccende hanno in comune sono gli uccelli.
Peccato, perché la du Maurier ha scritto anche un romanzo splendido – La casa sull’estuario – e l’unica pellicola che ci assomiglia è Timeline di Richard Donner, ma ricalca il lavoro di Michael Crichton. Romanzo di molte pagine e molte pretese, il film è roba da ragazzini brufolosi e coetanee di rosa vestite. Se Donner avesse usato La casa sull’estuario, si sarebbe ritrovato con un Dottor Jekyl e mister Hyde di tutto rispetto, con salti temporali e attori in costume.
Essendo un lettore forte e uno spettatore debole, raramente, apprezzando un libro, corro a scovare la sua versione cinematografica. È successo in qualche caso, ad esempio con Il signore delle mosche. Il libro è strepitoso, il film è carino. La stessa cosa posso dire di Picnic ad Hanging Rock, con la regia di Peter Weir. D’atmosfera, certo, ma rivela la metà di quanto narra il romanzo omonimo di Joan Lindsay. Non che la Lindsay si prodighi in confidenze, ma quello che non dice lo dice così bene che il lettore se lo fa bastare e ringrazia.
Vorrei poi farvi notare che nel tempo ci sono stati riadattamenti agli adattamenti, film tratti da libri diventati obsoleti e storie riammodernate all’occorrenza. Sono incappata per caso nella vecchia pellicola di Scrivimi fermoposta di Ernst Lubitsch, film del 1940 tratto dalla commedia Parfumerie del commediografo Miklós László. Filmetto leggero e natalizio, in seguito ho scoperto essere stato riciclato in C’è posta per te di Nora Ephron, nel 1988. Dalla valigeria alla libreria – che negli anni ‘80 faceva chic – e dai bigliettini alla chat-room. Non posso dirvi come sia la versione della Ephron, esula dai miei gusti, ma è interessante notare come niente vada perduto e tutto possa essere riesumato.
E poi ci sono quei libri scritti per diventare film, la pellicola è la loro naturale conseguenza. Quelli di Elmore Leonard, di Le Carrè, Stephen King. Con esiti più o meno felici, ma sicuramente adatti a essere rimaneggiati e recitati. A questo punto risulta sconvolgente che nessun regista abbia ancora deciso di prendere la saga di Hap & Leonard per farne i nuovi Arma Letale. Questi romanzi di Lansdale hanno ritmo, dialoghi fulminanti e ambientazione yankee, tutte cose che al cinema farebbero faville. E agli americani gli attori “spara e fotti” non mancano di certo.
Inutile aggiungere che i miei acquisti librari non dipendono da film visti in precedenza, ho anche la pessima abitudine di scordare film e telefilm appena aziono il tasto off del telecomando. Certo succede di scoprirlo dopo ma, come già vi dicevo, non sono quella che si mette a caccia di tali pellicole. Posso affermare con certezza – nonostante la memoria labile – d’aver visto Il nome della rosa dopo averlo letto, meglio il libro ma il film non è niente male.
Lo stesso è accaduto con La cruna dell’ago, tratto dal libro omonimo di Ken Follett. Non siate dispiaciuti d’apprendere che il film di Richard Marquand del 1981 risulta migliore del romanzo. Ho sempre avuto l’impressione che Follett volesse farsi apprezzare da una vasta gamma di lettori e, per questo, adottasse una scrittura piuttosto facilitata. Magari ha ragione lui, ma i suoi romanzi risultano scritti in maniera elementare. Scivolano via alla svelta.
Se poi volete sapere quanto un attore influenzi la mia personale visione di un personaggio letterario, vi svelerò che, leggendo Il piantagrane di Marco Presta e seppur io non segua il calcio, ho dato al bizzoso personaggio di Granchio la faccia di Gattuso. E spero di non aver fatto un torto a nessuno.
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