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ProLogos – Maremarmo di Fernanda Ferraresso

Da Met Sambiase @metsambiase

Ancora è notte ma all’arca dei diluvi

il tempo viene come un oceano 

a cancellare le impronte

(da Maremarmo di Fernanda Ferraresso)

foto di Sandra Tagliavini elaborazione di S. Sambiase

foto di Sandra Tagliavini elaborazione di S. Sambiase


Ci sono libri in cui la vita entra nella poesia spalancandosi ed invadendo lo spazio interiore.   Non c’è tempo di intenerirsi in malinconici reportage di anni e inverni o amori da trasfigurare immutevoli :  la narrazione stessa chiede alla poesia di diventare vita attiva e universale,  di riguardare l’esistenza umana e di ritornare a metterla in versi. Così tocca, ad esempio,  alla poeta Fernanda Ferraresso ri-guardare con nuovi occhi anche il mare,  ed esso viene a lei  con un canto profano di grazia persa, perché la grazia non compare più alla base del canto del mare. Il mare di questo nuovo resoconto umano è di marmo, uno spazio azzurro che respinge e che attende (simbolicamente e non) chi di noi vuole passare dal dolore alla speranza,  “un’altura senza soli”. In francese mare e madre sono la stessa voce, l’elemento primigeno del linguaggio di una lingua accogliente, materna, mare\madre e i 28 testi che compongono il libro di Fernanda Ferraresso Maremarmo, si dipanano come luci analogiche che accendono e mostrano  l’indifferenza del dolore di chi è respinto dall’altro, dalla sua stessa “progenie”; si posano su  colui e  colei che  superstiti vivono  dopo un naufragio interiore (e sociale), che attraversano il mare di marmo per di rientrare inesorabilmente nella necessità di ritrovarsi nell’ umanità originale, il mare\madre. La costruzione del luogo poetico si scioglie nei flussi dei versi che portano la verità della visione del caos esistenziale, che definisce il limite e il confine della precarietà del vivere per chi nasce dalla parte povera del mondo, o in astrazione, in quella in cui si vive come pecore fra i lupi. Il mare è la terra in fuga, che non ci aspetta, che si fa conquistare con sudore e paura.  La vita è “ un posto \uno qualunque in cui mettere i piedi\ sentire che il luogo è questa terra intera\ è poter ritrovare dimora”. Il maremarmo è la biografia nascosta nei confini e nei punti geografici che non ci appartengono, che non si dissolvono ma si concentrano in luoghi dove “s’impicca l’amore”. Questo è il mare di Maremarmo: il percorso nomade di versi che con maestria si plasmano alla lunghezze delle onde, fulminei e veloci , poi si contraggono in distici e ancora si risciolgono, ritornando lunghi e e tuttinunfiato, vivendo d’alterità perché portatori di impegno di vita, intrecciandosi fra visioni e metafore e sincerità di sguardo. C’è un’indicazione, nella prima parte del poemetto: il naufragio è diurno, il mare è meccanico, le genti hanno nomi che nessuno ascolta, è il nuovo naufragio notturno di René Daumal, “i cadaveri di speranze alla deriva\reclamano la nascita eterna\di un perpetuo omicida”. Ma la precarietà esistenziale continua anche dopo lo sbarco, dopo l’approdo: è il fato che rende eroi ed eroine chi lotta nella sua direzione contraria? “Il fato ci muove: arrendetevi al fato” ammonisce l’Edipo di Seneca che la poeta sceglie nell’ultima poesia. Ma i versi epici non sono l’ultima indicazione che perimetrerà la vita sulla terra ormai ferma; l’epica è nel riconoscimento del fato contrario e la testardaggine ad esporsi dell’eroicità del cammino “controvento”, l’eroismo di quella parte della dimensione umana, quella che scompone e ricompone la vita in cerca di una grazia, di una terra madre da contrapporre al mare marmo. Dopo il mare, l’approdo, la riva dove si alza una donna dai mille volti e un solo grido d’aiuto. E’ una figura archetipica che domina l’apocalisse di dolore della seconda parte del libro, il maremarmo ha partorito “una creatura scura” perché bruciata e rinata dalle sue ceneri e che ha attraversato la vita nuova in un purgatorio fatto di altri, “una notte in piena ero una femmina sempre più sola \ un fiume senza rive e non sapevo cosa\di me sarebbe stata terra o sabbia” e che continua a chiedere di vivere e dispensa canto e versi tersi e continui, in una ricorsività ritmica che regge il passo per arrivare “poco più in là” dove “saremmo salvi da ogni mutazione”.

mare marmo

BANCHINA NORD
ore 3 del mattino , nel meridiano una soglia
Così la terra esplode – dice Kahfee e Faizan lo ripete
mentre Efia le fa eco e Jumapili lo scrive
e la vecchia Minkah lo ricorda, Afsaneh ne tesse una favola
Akthtar ne vede il fiore, e Darya ne tocca il mare, Elaheh prega per tutti,
Farahnaz azzittisce il suo seme di gioia, Ghoncheh depone un bocciolo dalla veste
e

milioni di persone volano
dovunque in aria volano
senza lasciare un segno
corpi e macerie in una sola amalgama di orrore
poi a terra piombano le strade la voce e la gente
si stringe intorno a quella oscura eclissi china
intorno ai moncherini di una vita che non riconoscono.

capo mundi

SULLA RIVA DI MAREMARMO

viene il giorno in cui si aprono
le storie e dentro
ogni parola la lingua espelle uomini
e bestie in una sola rigida carcassa
nuove divinità si stendono
da un ventre oscuro più della notte buio
storie di pece nascono

nella pancia del mito c’è una balena sbilenca
di giorno e di notte
in quel mare di marmo
i morti scrivono
navigando fuori rotta
lungo le coste la si vede in giorni malfermi
galleggiare su una spalla d’acqua gonfia
erutta sangue in zampilli di gerani
il mare intorno al relitto trema
la sua carcassa è un sarcofago d’ossa
di fango un lunghissimo poema
senza soste un fluire d’onde
pagine come gusci e fili di calce
di ignote conchiglie di perla le vite aperte.

foto di Sandra Tagliavini elaborazione di S. Sambiase

foto di Sandra Tagliavini elaborazione di S. Sambiase

SULLA PARETE DEL CONTAINER
strappato e ricomposto un testo come un puzzle

voi che venite
nello sguardo attraversate

un corpo di nuvole
un fatto in un teatro
oggi

costruito di passato
il rifugio è il rifugiato

io dentro o dietro di me blindato
doppio nell’occhio altrui doppiato

cieco guado un passaggio
attraverso il mondo

corpo di ogni cosa
me stesso libero

in una scena di sconforto contratto l’anima
e il calcagno la pelle permuta sull’asse la soglia misura.

Il fato ci muove:
arrendetevi al fato.
Nessuno sforzo umano
può mutare il filo del destino.
Seneca, Edipo – XIII


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