Nella grande sala dell'Olimpo, gli déi assistevano a uno spettacolo inconsueto: Efesto, il fabbro zoppo e irsuto, conduceva per mano una strana meravigliosa creatura dal corpo di donna e dal viso di angelo che si muoveva con una grazia un po' rigida. Efesto sghignazzava con la sua grossa voce: non era una donna o una dea la splendida figura cui dava la mano, ma una statua, una prodigiosa creatura delle sue mani e del fuoco della sua fucina. Zeus dopo averla ammirata, decise che a una così perfetta bellezza mancava l'ultimo tocco: accostatosi ad essa, le alitò in volto il suo spirito divino e, ecco, la bambola aprì gli occhi, sorrise, parlò. Ognuno degli immortali volle salutarne al nascita con un dono: poco dopo. la fanciulla, felice e commossa, si vide circondata da una montagna di gioielli, di vesti ricchissime, di arche preziose.
Per ultimo, Zeus si fece avanti e porse un'anfora meravigliosa, chiusa da un pesante suggello. - Tu avrai nome Pandora - le disse - un nome che significa "colei che ha tutti i doni". Questo è il mio regalo: ma bada di non aprirlo mai, per quanto hai di caro al mondo. Pandora prese il dono piangendo di gioia e promise. Poco dopo, sull'aereo cocchio di Afrodite, partì per la terra, con tutto il suo carico prezioso: una dote degna della figlia di un re. E, infatti, Pandora sposò un re, un mite sovrano degli uomini, Epimeteo, con cui visse felice per qualche tempo, nella sua rustica corte di Tessaglia. Ma, fra tante magnifiche virtù, la fanciulla aveva un difetto: era curiosa, di una curiosità incontenibile, che le faceva dimenticare ogni obbligo o giuramento. Così, un giorno, mentre Epimeteo era lontano ed ella ammirava ancora una volta i suoi gioielli, non seppe resistere, afferrò il bel vaso donatole da Zeus e bruscamente ne ruppe il suggello. Un colpo di vento, una nube fetida e oscura si sprigionò dalla bocca dell'anfora con la violenza della bufera, gettando a terra stordita l'incauta fanciulla. Tutti i mali, i dolori, le malattie che affliggono gli uomini erano racchiusi là dentro: e ora essi appestavano la terra, seminando la morte e il terrore in ogni paese. Inginocchiata, Pandora, piangeva in silenzio, mentre la nube orrenda finiva di disperdersi nell'aria; ma, in ultimo, sulla bocca del vaso apparve un uccellino verde, dalle piume risplendenti come l'arcobaleno, che volò via con un trillo di gioia. Era la Speranza, l'estremo conforto che il Fato concedeva agli uomini, cui la stoltezza di Pandora preparava un avvenire di tristezza e di miseria.
Ed eccoli, questi poveri uomini, schiacciati dalla sventura, attanagliati dal gelo e dalle febbri, tremanti di paura nel buio notturno, fra gli urli terrificanti delle belve. La natura ostile minacciava di spegnerne anche il ricordo, abbandonandoli senza aiuto alla mercè delle forze del male. Ma ci fu qualcuno che sentì la loro angoscia: un potente semidio, uno dei Titani che avevano aiutato Giove a salire sul trono, il più saggio, il più forte fra i mortali. Il suo nome era Prometeo. Una notte, egli salì fino all'Olimpo, forzò le porte risplendenti della reggia e, sfidando la collera degli déi, rubò al carro del sole una scintilla della sua corona splendente. A grandi balzi, levando alta nel buio la fiaccola sfolgorante, il Titano scese sulla terra, fino alle tane degli uomini; li chiamò a gran voce e accostò a un'alta catasta di legna la scintilla solare. Miracolo!
Le fiamme divamparono ruggendo; il fuoco, divino elemento di forza e di salute, era in mano agli uomini (secondo la leggenda il fuoco, privilegio degli déi, fu portato sulla terra appunto da Prometeo). Ma già, nel cielo notturno, rimbombava la collera di Zeus. Il sole del mattino illuminò un atroce spettacolo: su una rupe del Caucaso, Efesto e i suoi Ciclopi incatenavano alle pietre il Titano sacrilego. Prometeo giacque così, sotto la sferza del sole e della tempesta, inchiodato alla rupe, silenzioso e calmo: l'ira di Zeus che aveva potuto accanirsi così sul suo corpo, non aveva scosso la sua grande anima. Ogni giorno, dal cielo calava su di lui l'aquila messaggera del suo tiranno, con il rostro e gli artigli aperti: un atroce dolore, un urlo, e il becco del rapace si affondava nel suo fianco, rodendolo atrocemente. Di notte la piaga si risanava, per riaprirsi al mattino sotto l'orrido supplizio.
Trascorsero gli anni: il bianco corpo del Titano incatenato giganteggiava sempre, lassù, sulla rupe buia a picco sull'Oceano. Ma un giorno, un giovane gigante scalò la montagna, si avvicinò all'eroe silenzioso e con un unico sforzo spezzò le sue catene. Era Ercole della stirpe degli uomini. La tortura era cessata: il corpo martoriato restò sulla terra, mentre l'anima luminosa di Prometeo balzava verso il cielo, confondendosi nella gloria solare.
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