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Proprietas

Da Parolesemplici

Proprietas

Ogni giorno ci camminiamo sopra. Senza sapere di chi, di cosa, per quanto. La vecchia nuova proprietà è sempre di qualcuno. E’ sempre o pubblica o privata. Secondo il Codice Civile (al Libro Terzo della proprietà) “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Quindi, che tu sia una persona fisica o un soggetto giuridico, ti spetta la titolarità del diritto che ti compete. Qualcuno ti dirà cosa è privato e cosa è pubblico. Cosa non lo sarà mai e cosa lo può diventare.

Il proprietario può utilizzare la cosa, cioè può trarne il valore d’uso che essa ha. Il proprietario è teoricamente libero di usare o non usare il bene, di decidere come usarlo, di trasformarlo e al limite di distruggerlo (sempre che l’ordinamento giuridico sia d’accordo). Semplicemente ci camminiamo sopra e ci macchiamo le scarpe. E andiamo. Oppure ci passa per le mani, si perde per le tasche, si rivende a miglior offerente. Vi voglio parlare di proprietà privata. La più privata che ci sia: noi. In materia di etica e salute il mondo discute ancora (e lo farà per molto) il diritto di poter esercitare la proprietà privata dei nostri corpi al posto nostro in circostanze particolari. Alcuni tribunali, alcune giurisdizioni tolgono alle persone la capacità di decidere, o di decidere anticipatamente, se risulta evidente che esse non sono più grado di farlo o se semplicemente sembra un aggravio all’etica globale e sembra più giusto il contrario (es. trattamenti fine vita, testamento). Ma non è di questo che vi parlerò. Ma del concetto generale, fondamentale, di poter e dover godere della proprietà che abbiamo: a maggior ragione se la proprietà in questione siamo noi.
E c’è ogni giorno qualcosa che minaccia di far diventare il privato pubblico. Alzi la mano chi non è mai diventato pubblico. Di solito succede con le cose peggiori che siamo. Con i difetti. Ma anche con quello che proteggiamo, con i segreti. Con le vergogne, non solo morali, e con i sentimenti. E come ci sentiamo toccati davanti a un tentativo di esproprio. Di passaggio da pubblico a privato. Una malattia. Una sofferenza che vorresti vivere di nascosto. Il nudo della tua anima. Il marito, la moglie che vogliono sapere di se sempre tutto. L’uomo che ride davanti a una collega che fatica a lavorare, con gli occhi lucidi. Il compagno di scuola che racconta a tutti che quello non ti si fila proprio. La social card che in Italia dice anche al panettiere che stai morendo di fame e sei un “aiutato”. La tua faccia privata che porta i segni della vita a essere pubblici.

E c’è ogni giorno qualcosa che minaccia di togliere la dignità di torno. Quella dignità che risparmi, centellini, fino all’ultimo. Semplicemente molti ci camminano sopra e si macchiano le scarpe. La coscienza. E andiamo. Andiamo tutti insieme per Corso Italia, ognuno nel suo, a guardare le vetrine. E se vediamo qualcuno che sta peggio di noi, un senzatetto, un venditore ambulante di un’altra etnia, voltiamo la faccia senza un sorriso. Perché è vero che le stesse cose che cerchiamo di nascondere in noi non vogliamo vedere negli altri. Una proprietà pubblica troppo scomoda. I problemi sono sempre scomodi. Ma noi paghiamo con la carta di credito, e possiamo ancora scegliere il colore delle scarpe.

Ma c’è quel privato di noi che sono le stesse cose di chi le vive in disgrazia pubblica. C’è chi vorrebbe suo padre, sua madre accanto a sé più di una volta l’anno come lo desidera il venditore di tappeti marocchino che è a Milano senza permesso di soggiorno. C’è chi non vorrebbe andare a recuperare ogni volta i soldi dal salvadanaio, in tutto il mondo, cambia solo il valore del salvadanaio prima di essere rotto. C’è chi si chiede quanto di tutto sia giusto, per lo meno per il futuro dei suoi figli che stanno crescendo e mentre se lo chiede guida una classe S da 80 mila euro coi sedili di pelle, e chi se lo chiede perché hai i figli in cura all’assistenza sociale. C’è chi pensa che sta perdendo la sua serenità mentale e non si chiama più stress, ma ha paura di dirla quella parola: perché è una malattia; e dice agli altri che sei un debole. E ci pensa uno che si è appena laureato e ha la vita davanti, chi ha una bella famiglia, chi ha sempre pensato di essere onnipotente. C’è chi pensa di meritare un briciolo d’amore a questo mondo perché in fondo non è solo fatto di difetti e imperfezioni.

Ognuno cerca di tutelare la sua proprietà privata. A volte perfino negando che esista. A volte perfino cessando di viverla abbastanza.

Sono qui che ti parlo di questo. Ho chiesto a una persona: cosa ti rende felice? Questa la sua risposta:
Mi piace il calore di un abbraccio sincero, mi piace chi pensa prima di parlare e soprattutto agisce in armonia con le sue scelte, mi piace un the o una cioccolata calda d’inverno, davanti al camino con il freddo fuori dalla finestra e il calore sotto il piumone, chi mi narra una storia a bassa voce tra i lumi di qualche candela profumata alla cannella; chi mi saluta guardandomi negli occhi e con un’interessata e importante stretta di mano.
Chi mi ascolta, ma lo fa davvero e porge orecchio ai miei silenzi e sospiri più che alle mie parole.
Il sorriso pieno di un bambino quando si diverte a vedermi mentre faccio la buffa e…due persone che si tengono per mano anche dopo anni e anni di matrimonio e vita vissuta insieme. La complicità di uno sguardo e la semplicità e magia di un minuto speciale.
L’importanza di far sentire ciascuno speciale, unico. Rispettare gli spazi altrui e varcare la soglia di questi ultimi solo quando me ne viene data la possibilità.
Il contatto che cerco scagliandomi sugli altri, solo per sentirne la presenza.
Un libro, nel quale posso immergermi senza paura di affogare. Una poesia dietro la quale solo io posso scorgere mie verità, ad altri celate.
Un gelato in pieno inverno per sentire i brividi non solo fuori, ma anche dentro. Il calore di una sciarpa intorno al collo dalla quale posso sentire il profumo di persone a me care. Il bacio della nonna o del nonno dopo avergli fatto visita. Il tepore di un bacio. La felicità altrui. I piccoli gesti: un semplice fiore colto in un campo.
I viaggi. Il poter sostenere una sorella o un fratello in un periodo non favorevole. Emozionare le persone attraverso ciò che esprimo scrivendo. Essere e non apparire. Ascoltare…attentamente. Gioire con chi gioisce e provare amarezza con chi prova amarezza.
Di queste risposte ce ne sono milioni. Non posso intervistare tutti.
Quante volte hai rinunciato a tutto questo, per proteggere la tua proprietà privata? Per paura del pubblico. Non so tu, ma io molte volte. E lo rifarò. Ma ci spetta di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico dei nostri stivali, capisci? Ci spetta utilizzare la cosa, trarne il valore d’uso che essa ha, sulla nostra pelle. Sia un difetto, un pregio, una malattia, un segreto, un tuffo nel dolore. Scambiarla. Il proprietario è in concreto libero di usare il bene, quel bene privato, quel bene che può voler dire solo bene cristo santo, di decidere come usarlo, di trasformarlo all’infinito. Con tutta la paura di questo mondo. Ti spetta. E ti spetta cadere. E ti spetta non venire preso in considerazione, essere preso non con la cura di cui ha bisogno, ti spetta essere dimenticato. Hai bisogno di pensare a te perché nessuno lo farà per te molto spesso.

Vi dico: le strade, le finestre, le passioni, l’inverno, i battiti persi. Le speranze forti. La proprietà privata. Le lascio a voi proprietari. Non deludetevi.

Ti dico: se vuoi, viola la mia.

Ogni giorno ci camminiamo sopra. Senza sapere di chi, di cosa, per quanto. La vecchia nuova proprietà è sempre di qualcuno. E’ sempre o pubblica o privata. Secondo il Codice Civile (al Libro Terzo della proprietà) “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Quindi, che tu sia una persona fisica o un soggetto giuridico, ti spetta la titolarità del diritto che ti compete. Qualcuno ti dirà cosa è privato e cosa è pubblico. Cosa non lo sarà mai e cosa lo può diventare.

Il proprietario può utilizzare la cosa, cioè può trarne il valore d’uso che essa ha. Il proprietario è teoricamente libero di usare o non usare il bene, di decidere come usarlo, di trasformarlo e al limite di distruggerlo (sempre che l’ordinamento giuridico sia d’accordo). Semplicemente ci camminiamo sopra e ci macchiamo le scarpe. E andiamo. Oppure ci passa per le mani, si perde per le tasche, si rivende a miglior offerente. Vi voglio parlare di proprietà privata. La più privata che ci sia: noi. In materia di etica e salute il mondo discute ancora (e lo farà per molto) il diritto di poter esercitare la proprietà privata dei nostri corpi al posto nostro in circostanze particolari. Alcuni tribunali, alcune giurisdizioni tolgono alle persone la capacità di decidere, o di decidere anticipatamente, se risulta evidente che esse non sono più grado di farlo o se semplicemente sembra un aggravio all’etica globale e sembra più giusto il contrario (es. trattamenti fine vita, testamento). Ma non è di questo che vi parlerò. Ma del concetto generale, fondamentale, di poter e dover godere della proprietà che abbiamo: a maggior ragione se la proprietà in questione siamo noi.
E c’è ogni giorno qualcosa che minaccia di far diventare il privato pubblico. Alzi la mano chi non è mai diventato pubblico. Di solito succede con le cose peggiori che siamo. Con i difetti. Ma anche con quello che proteggiamo, con i segreti. Con le vergogne, non solo morali, e con i sentimenti. E come ci sentiamo toccati davanti a un tentativo di esproprio. Di passaggio da pubblico a privato. Una malattia. Una sofferenza che vorresti vivere di nascosto. Il nudo della tua anima. Il marito, la moglie che vogliono sapere di se sempre tutto. L’uomo che ride davanti a una collega che fatica a lavorare, con gli occhi lucidi. Il compagno di scuola che racconta a tutti che quello non ti si fila proprio. La social card che in Italia dice anche al panettiere che stai morendo di fame e sei un “aiutato”. La tua faccia privata che porta i segni della vita a essere pubblici.

E c’è ogni giorno qualcosa che minaccia di togliere la dignità di torno. Quella dignità che risparmi, centellini, fino all’ultimo. Semplicemente molti ci camminano sopra e si macchiano le scarpe. La coscienza. E andiamo. Andiamo tutti insieme per Corso Italia, ognuno nel suo, a guardare le vetrine. E se vediamo qualcuno che sta peggio di noi, un senzatetto, un venditore ambulante di un’altra etnia, voltiamo la faccia senza un sorriso. Perché è vero che le stesse cose che cerchiamo di nascondere in noi non vogliamo vedere negli altri. Una proprietà pubblica troppo scomoda. I problemi sono sempre scomodi. Ma noi paghiamo con la carta di credito, e possiamo ancora scegliere il colore delle scarpe.
Ma c’è quel privato di noi che sono le stesse cose di chi le vive in disgrazia pubblica. C’è chi vorrebbe suo padre, sua madre accanto a sé più di una volta l’anno come lo desidera il venditore di tappeti marocchino che è a Milano senza permesso di soggiorno. C’è chi non vorrebbe andare a recuperare ogni volta i soldi dal salvadanaio, in tutto il mondo, cambia solo il valore del salvadanaio prima di essere rotto. C’è chi si chiede quanto di tutto sia giusto, per lo meno per il futuro dei suoi figli che stanno crescendo e mentre se lo chiede guida una classe S da 80 mila euro coi sedili di pelle, e chi se lo chiede perché hai i figli in cura all’assistenza sociale. C’è chi pensa che sta perdendo la sua serenità mentale e non si chiama più stress, ma ha paura di dirla quella parola: perché è una malattia; e dice agli altri che sei un debole. E ci pensa uno che si è appena laureato e ha la vita davanti, chi ha una bella famiglia, chi ha sempre pensato di essere onnipotente. C’è chi pensa di meritare un briciolo d’amore a questo mondo perché in fondo non è solo fatto di difetti e imperfezioni.

Ognuno cerca di tutelare la sua proprietà privata. A volte perfino negando che esista. A volte perfino cessando di viverla abbastanza.

Sono qui che ti parlo di questo. Ho chiesto a una persona: cosa ti rende felice? Questa la sua risposta:
Mi piace il calore di un abbraccio sincero, mi piace chi pensa prima di parlare e soprattutto agisce in armonia con le sue scelte, mi piace un the o una cioccolata calda d’inverno, davanti al camino con il freddo fuori dalla finestra e il calore sotto il piumone, chi mi narra una storia a bassa voce tra i lumi di qualche candela profumata alla cannella; chi mi saluta guardandomi negli occhi e con un’interessata e importante stretta di mano.
Chi mi ascolta, ma lo fa davvero e porge orecchio ai miei silenzi e sospiri più che alle mie parole.
Il sorriso pieno di un bambino quando si diverte a vedermi mentre faccio la buffa e…due persone che si tengono per mano anche dopo anni e anni di matrimonio e vita vissuta insieme. La complicità di uno sguardo e la semplicità e magia di un minuto speciale.
L’importanza di far sentire ciascuno speciale, unico. Rispettare gli spazi altrui e varcare la soglia di questi ultimi solo quando me ne viene data la possibilità.
Il contatto che cerco scagliandomi sugli altri, solo per sentirne la presenza.
Un libro, nel quale posso immergermi senza paura di affogare. Una poesia dietro la quale solo io posso scorgere mie verità, ad altri celate.
Un gelato in pieno inverno per sentire i brividi non solo fuori, ma anche dentro. Il calore di una sciarpa intorno al collo dalla quale posso sentire il profumo di persone a me care. Il bacio della nonna o del nonno dopo avergli fatto visita. Il tepore di un bacio. La felicità altrui. I piccoli gesti: un semplice fiore colto in un campo.
I viaggi. Il poter sostenere una sorella o un fratello in un periodo non favorevole. Emozionare le persone attraverso ciò che esprimo scrivendo. Essere e non apparire. Ascoltare…attentamente. Gioire con chi gioisce e provare amarezza con chi prova amarezza.
Di queste risposte ce ne sono milioni. Non posso intervistare tutti.
Quante volte hai rinunciato a tutto questo, per proteggere la tua proprietà privata? Per paura del pubblico. Non so tu, ma io molte volte. E lo rifarò. Ma ci spetta di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico dei nostri stivali, capisci? Ci spetta utilizzare la cosa, trarne il valore d’uso che essa ha, sulla nostra pelle. Sia un difetto, un pregio, una malattia, un segreto, un tuffo nel dolore. Scambiarla. Il proprietario è in concreto libero di usare il bene, quel bene privato, quel bene che può voler dire solo bene cristo santo, di decidere come usarlo, di trasformarlo all’infinito. Con tutta la paura di questo mondo. Ti spetta. E ti spetta cadere. E ti spetta non venire preso in considerazione, essere preso non con la cura di cui ha bisogno, ti spetta essere dimenticato. Hai bisogno di pensare a te perché nessuno lo farà per te molto spesso.

Vi dico: le strade, le finestre, le passioni, l’inverno, i battiti persi. Le speranze forti. La proprietà privata. Le lascio a voi proprietari. Non deludetevi.

Ti dico: se vuoi, viola la mia.

 


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