L’immagine è spirito, materia, tempo, spazio, occasione per lo sguardo. Tracce che sono prove di noi stessi e il segno di una cultura che vive incessantemente i ritmi che reggono la memoria, la storia, le norme del sapere.
Mario Giacomelli
Mario Giacomelli nasce a Senigallia (Ancona) nel 1925, è il maggiore di tre fratelli e all’età di 9 anni perde il padre. In questo periodo comincia a dipingere e a scrivere poesie. La madre trova lavoro come lavandaia presso il locale ospizio. Qualche anno più tardi (1955) Mario ritornerà in quel luogo, dove realizzerà le immagini della serie “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, titolo ripreso da Cesare Pavese.
Avrà modo di dire in seguito che tra tutte le immagini, quelle dell’ospizio di Senigallia gli hanno procurato le più grandi emozioni.
La prematura perdita del padre, costringe Mario ad iniziare presto a lavorare come garzone in una tipografia di cui diventerà in futuro proprietario. Il tempo della scuola viene sovente impegnato in tipografia, la magia della stampa lo cattura e a 13 anni decide di fare il tipografo.
La “Tipografia Marchigiana” affacciata sulla piazza che, nel centro di Senigallia, celebra con un monumento Papa Mastai Ferretti (Pio IX), ha chiuso le sue serrande nel Dicembre del 1999.
Il 1953 segna la svolta nella vita di Giacomelli, acquista infatti per 800 lire una macchina fotografica e il giorno di natale si reca sulla spiaggia per scattare la sua prima fotografia.
E’ solo di fronte al mare che lambisce la spiaggia con le sue onde, scatta e movendo la macchina al momento dello scatto ottiene la sua prima fotografia “L’approdo”, immagine della battigia carezzata da un’onda come un colpo di pennello.
Vicino alla tipografia abita una persona che tanto peso ha avuto nell’inserimento delle Marche sul dibattito che, a livello nazionale, si stava sviluppando sulla fotografia, quest’uomo è Giuseppe Cavalli.
Avvocato, uomo di lettere, profondo conoscitore di Croce (cita spesso a memoria passi del “Breviario” al giovane Giacomelli, chiedendogli poi opinioni a cui il “nostro” risponde invariabilmente “non ho capito” o “non sono d’accordo”) ma anche esperto di tecnica e storia della fotografia, fondatore nel 1947 con Leiss, Finazzi, Vender e Veronesi de “La Bussola”, storico circolo le cui idee crociane furono espresse nel Manifesto pubblicato da “Ferrania” nel maggio 1947.
Dopo alcuni anni tuttavia il successo iniziale riscosso da “La Bussola” comincia a venir offuscato dal progressivo affermarsi di un altro gruppo storico “La Gondola” guidato da Paolo Monti, alle cui immagini molti giovani si avvicinano, colpiti dal loro grande vigore espressivo.
E’ forse questo uno dei motivi per cui, nel 1953, Giuseppe Cavalli fonda proprio a Senigallia il gruppo “Misa”, di cui Giacomelli e Piergiorgio Branzi rappresentano le “giovani speranze”.
Nel “Misa” non c’è la presenza egemone delle idee di Cavalli come ne “La Bussola”, è un gruppo aperto dove ognuno è libero di condurre le ricerche che vuole, sono così inevitabili gli scontri, soprattutto tra Giacomelli e Cavalli stesso. “Cavalli purtroppo vedeva solo da una parte e allora litigavamo sempre” avrà modo di dire Giacomelli.
Del gruppo “Misa” Mario Giacomelli è cassiere per alcuni anni.
Nel corso delle discussioni all’interno del “Misa”, Giacomelli conosce le opere di Paolo Monti, apprezzandole al punto di arrivare a dichiarare “Cavalli diceva che era il nemico pubblico n° 1, ma a me Monti mi faceva morire!”. E sarà proprio Paolo Monti (in giuria con Roiter e Comisso, tra gli altri) a dargli la soddisfazione del premio al miglior complesso di opere al Concorso di Castelfranco Veneto nel 1955. “Apparizione è la parola più propria alla nostra gioia ed emozione, perché la presenza di queste immagini ci convinse che un nuovo e grande fotografo era nato” dichiarerà in seguito lo stesso Monti.
Nel 1956 Cavalli, forse nel tentativo di svecchiarla, lo chiama a far parte insieme a Branzi de “La Bussola”, da cui uscirà ben presto per insanabili divergenze.
Del 1957-59 è la serie di immagini riprese a Scanno, Giacomelli rimane affascinato dall’atmosfera fiabesca del luogo, che aveva già colpito altri grandi fotografi, tra cui Henri Cartier Bresson.
Sempre del 1957 è la serie “Lourdes” seguita, nel 1958, da “Zingari”, “Puglia” e, nel 1959, (ripresa nel 1995) “Loreto”. Del 1961 sono le immagini di “Mattatoio” e nello stesso anno inizia a lavorare alla serie “Io non ho mani che mi accarezzino il viso”, titolo ripreso da uno scritto di padre Turoldo. Le immagini sono riprese nel Seminario Vescovile di Senigallia, che Giacomelli frequenta per un anno prima di dar forma alle foto vere e proprie. In questo ambiente i giovani seminaristi sono ripresi in momenti di ricreazione, le foto restituiscono l’incanto di uno spazio umano, ma al tempo stesso sospeso in una sorta di astrazione temporale.
Nel 1963 inizia la grande stagione di mostre che porteranno le sue immagini nei più grandi spazi espositivi del mondo, dalla Photokina di Colonia nel 1963 al MOMA di New York (1964), dal Metropolitan di new York (1967) alla Bibliothèque Nationale di Parigi (1972), dal Victoria & Albert Museum di Londra (1975) al Visual Studies Workshop di Rochester (1979 e poi Venezia, Providence, Parma, ancora New York, di nuovo Colonia, Mosca, Arles, Amsterdam, Tolosa, Bologna, Londra, Rivoli fino alle recenti antologiche di Empoli, Losanna e Roma (purtroppo postuma).
Risale agli anni 1964-66 “La buona terra”, seguita da “Caroline Branson” del 1971-73, lavoro ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, poi “presa di coscienza sulla natura (1980-94), la grande serie dei paesaggi.
Su testi del poeta Permunian si fonda “Il Teatro della neve” (1985-87) seguita da “Ninna Nanna” e “A Silvia” (1987-88), lavoro pensato in origine per un programma televisivo. Nel 1986 muore la madre, a cui aveva dedicato nel 1955 un intenso ritratto.
Tra i lavori più recenti ricordiamo: “Il mare dei miei ricordi” (1991-94), “Io sono nessuno” (1994-95) su testi di Emily Dickinson fino ad arrivare a “Questo ricordo lo vorrei raccontare” (1998-2000) e “Bando” (1998-99) ciclo di immagini in serie di 4, ispirate ad una poesia di Sergio Corazzini e presentato nel 1999 alla XXIV Biennale d’Arte contemporanea di Alatri.
Il 25 novembre 2000, all’età di 75 anni, Mario Giacomelli si è spento nella sua casa di Senigallia.
(Biografia reperita in rete)
cos’è il nero
se non il troppo amore
una mancanza il bianco
nostalgia del colore
non c’è approdo
se non si arriva al fondo
( c’è una luce a volte
a volte c’è una luce )
non ha tecnica
il cuore
è autodidatta
toccare il fondo
e poi salire
di Carmen Morisi
***
Al buio nulla riposa
in pace solo tu
dormi e non ti accorgi
di quanto rumore faccia la vita
sfilandosi dai letti,
dalle lenzuola inamidate,
dalle coperte scucite,
dai miei piedi scalzi
che a passo di sabba corrono a danzare sui tetti.
Il gatto, il topo, il ragno
si uniscono quassù
al mio disordinato invocare
una minima ragion d’essere
che detti la regola per perimetrarmi
– intatta ed intera –
entro i confini del letto
addormentata.
di Claudia Brigato
***
a Mario Giacomelli di Claudia Zironi
che siano i campi a mettersi in posa
che sia il tempo a prostrarsi
alla sovrimpressione
che si addomestichi la realtà
all’astrazione
che la morte attenda
lo sviluppo della lastra
che l’umanità salga sul palco
e si inchini al regista
lampi di fosfori, fiumi di sali
di bromuro d’argento, alchimie
di contrasti e viraggi, vortici
di esposizioni e diaframmi
per abortire i grigi
alla purezza del mare
della madre, della terra
***
ACQUA DI MARE* (terra in vista) di Fabio Barcellandi
infinite virtuose
dita di musico
schiumano
un’ipnotica melodia
sull’eterno auspicio
di addormentar
per conquistare
… terra
senza accorgersi
di star suonando
su se stesse
onde
sull’acqua
che l’attimo in cui la toccassero
verrebbe loro meno
… il piano
*
IL RICORDO * di Fabio Barcellandi
quanto strano è il ricordo
dimentica!
***
languire nell’aria che stagna
come prima del volo,
ala nell’ala.
il solo muoversi silenzioso
dei pollini sospesi
a tendere gli animi
nei corpi quietati
dal respiro nel respiro.
le dita intrecciate alle dita
legacci che tengono in vita.
la luce meraviglia della sera.
di Fernando Della Posta – 05/12/2014
*
di te arcane parole perdute
nel sogno dell’agro che sfama
succoso di farine e nebbia.
lo sguardo più vero del vero
giuramento che si fa ai corvi
in questa pasta addensata d’argento
mescolata da occhi sapienti.
di Fernando Della Posta – 29/12/2014
*
l’anima lirica appigliata agli uncini
malfermi del vento.
raggi di luce che figgono trame,
gli angeli allegri a sbrogliarle
per consentire il volo.
di Fernando Della Posta – 29/12/2014
***
La crepa di Guido Mura
La sento
insinuarsi nel buio – nella pietra
penetrerà il suo sguardo
più forte del cemento – dell’acciaio –
scuoterà la mia pace –
inesorabile
come lava che avanza nella notte
Invano la materia equilibrista
resisterà tenacemente assorta –
Qualcosa viene – luce o fuoco o vento
o balenio di stelle
Non c’è quiete nel mondo non c’è quiete
né sicurezza nulla di racchiuso
in tenaci forzieri in celle occulte
dietro robuste mura
Qualcosa arriva – truci assalitori
o suoni d’arpa – nobili fanfare
o canti di cicale del meriggio
mentre uccelli si posano loquaci
messaggeri del cielo –
Forse arriva la vita
da quella crepa
***
Una convergenza di voli di Paolo Polvani
L’enigma di un tramonto e il racconto
di una convergenza muta di voli,
un’euforia di nuvole e di luce, una
beatitudine celeste e quali
vocabolari incidono le ali
e quali accenti infila la nazione
degli uccelli nell’ululato della gioia.
Ora stirano i lembi del cielo in un
farfugliare collettivo.
E’ un banchetto, un rimpinzarsi di
felicità, c’inchioda a un’estraneità,
a uno sguardo che si mette a cantare.
***
Di Uno dicevano che fosse sfrontato, perché ti guardava fisso negli occhi e non abbassava mai lo sguardo.
Di Due sappiamo che le piaceva ballare, andava a passo di danza pure dentro il casermone.
Tre e Quattro erano inseparabili, la schiena di Tre si era conformata al peso di Quattro, che ogni tanto si pisciava addosso, mentre Tre rideva.
Il cappotto di Cinque lo prese uno di dieci anni più grande di lui, alla fine.
Sei era carina e spettinata, e aveva quell’abitudine di incrociare le gambe per riposarsi contro un muro immaginario.
Sette forse era già donna, si mormora che fosse innamorata di Uno, e che quella gonna sempre mezza aperta, i capelli indomati in un tentativo di riavvio e le guance rosse, confessassero carezze proibite.
Otto correva sempre, e appena fermo salutava, lui non era fatto per la vita da Sinti, lui inseguiva l’esercito.
E Nove fu il primo, del Male antipasto prima della lauta cena.
Per quello non fuggì, quando lo presero era l’unico seduto.
Evaporati in una nuvola, nera.
di Rosario Campanile
***
SALTIMBANCHI DI DIO di Shar Danus
Si vive
in campane di vetro
– nei vostri abiti neri –
separati dai fasti
sciagurati del mondo.
Siete saltimbanchi di Dio
– dervishi danzanti –
trottolio di gambe felici
prima del vespro.
Anche i bambini lo sanno:
la palla va lanciata per lungo,
al compagno,
ché se la scagli lontano
– su, in alto –
rimane incagliata tra i rami e le ali.
***
vie di nervi di Patrizia Sardisco
Infestata dal vuoto
l’altalena non è
più scoperta di vento
un ristagno d’assenza
ha disdetto il colore
vie di nervi in catene
come vele d’acciaio
e involate di giorni
echi in gola, argentini,
le faccende di un ragno
_ un distratto dolore