di Alessandro Diotallevi
Siamo di nuovo coinvolti emotivamente da gravi fatti di corruzione. Senza il corredo dei commenti di coloro che hanno il potere comunicativo o politico di intervenire sul tema, ciascuno di noi elaborerebbe un proprio giudizio personale e, in alcuni casi, potrebbe pervenire ad una conclusione quanto mai pericolosa: che c’è un ordinamento giuridico particolare, quello dei partiti,che include regole implicite ordinate, mediante il loro contenuto di corruzione, a sostenerne il corso legale. Senza avere dimestichezza col pensiero di Santi Romano, non sarebbe impossibile persuadersi che tutti i sistemi politici, in tutti tempi, adottano, per la loro azione ed organizzazione, a spese del popolo sovrano, una sorta di pseudocontrattualistica del malaffare, condivisa a sinistra come a destra e al centro.
Personalmente, sono convinto di una forte osservazione di Tocqueville, secondo il quale si deve essere persuasi “che la causa decisiva che fa perdere agli uomini il potere, è che sono diventati indegni di averlo”. Apparentemente, se l’animo dell’uomo e le società non fossero così complessi ed oscuri, avremmo già un punto d’arrivo. I partiti esprimono uomini di potere che, in quanto corrotti, diventano indegni di conservarlo. La partita non è così facile. Chi glielo toglie il potere ai partiti? Ma, diamine, i cittadini, con il voto. E già! Se i processi elettorali sono addomesticati da leggi elettorali fasulle, ma più in generale, l’opinione pubblica si forma sulla base di una preponderante influenza dei partiti e dei corrotti, allora il potere questi soggetti lo conservano, con una certa facilità ed anche con continuità. Nella storia repubblicana, parlandone a spanne, abbiamo avuto ripetute storie di tangenti, di deviazioni dei pubblici poteri, di accanimenti contro le leggi giuste, eppure gli indegni soggetti, con rari infortuni dovuti evidentemente a stupidità o a regolamenti interni, non hanno perduto il potere.
Vediamo, brevemente, come funziona la questione della corruzione, in due dei suoi momenti vitali.
Fino a che non viene scoperta, produce enormi quantità di danaro che hanno una doppia funzione: arricchiscono singoli soggetti (fatto gravissimo) ma soprattutto distorcono il sistema democratico (fatto più che gravissimo). Lo sappiamo tutti che per fare politica ci vogliono soldi. Sappiamo che le tessere sono comprate, le sedi dei partiti costano, le riunioni hanno bisogno di luoghi ameni e convivialità, perfino i congressi valgono se sono grandiosi. Il finanziamento pubblico non basta. Il finanziamento privato, diciamo per il 99%, viene da chi ha interessi nei partiti, ha interesse a farli girare in un certo modo e a tenerli al guinzaglio.
La gente, mediamente, consapevole che i partiti sono indegni del potere che amministrano, è legittimamente convinta di non dover mettere mano al proprio portafoglio per finanziarli. Senza i soldi della corruzione, iniziative politiche di rinnovamento sono quanto mai difficili da sostenersi. Fra l’altro, lo sappiamo, la più facile delle obiezioni, sostenuta da informazioni prezzolate, vuole che non ci sia bisogno di altri partiti. Anzi meno ce ne sono meglio è per le istituzioni. Una grande menzogna pubblica! Ma come si fa ad avere mezzi per smentirla alla prova dei fatti, se non si vuole partecipare alla mattanza delle regole di onestà della democrazia?
Quando poi viene scoperta, allora la corruzione produce enormi occasioni per utilizzarla strumentalmente. Quei fessi dei corrotti presi finalmente dai giudici vengono immediatamente scaricati dai partiti. Che vadano in galera, brutti delinquenti. I corrotti colti in flagranza se ne dolgono (alcuni arrivano a dire, “ma come, siete stati voi a suggerirci le vie dell’approvvigionamento criminale”). Gli altri, nei cui confronti, beninteso, non si deve dubitare della loro onestà, intellettuale e politica, immediatamente mettono in campo il noto armamentario custodito dalle cronache e dalla storia. Che siano espulsi, che siano confinati, che siano approvate nuove leggi, che vi siano nuovi controllori, insomma, che siano tolti di mezzo gli untori della corruzione.
L’opinione pubblica sembra appagata. Io non ci riesco. Mi viene in mente un passaggio del pensiero sturziano là dove svolge questa riflessione. “non è la verità una semplice speculazione intellettiva o il bene una pura tendenza di volontà; il vero si converte col fatto, e il fatto è la vita, e la vita è bene; in tutto questo ambito di vita sociale e pubblica nella reciprocità di fatti e di idee, gli uni e le altre si modificano e si evolvono”.
Ne traggo una conseguenza, applicandolo alla questione della corruzione, fra l’altro posta da Don Sturzo in quella non dimenticata intervista del 1946 intitolata “moralizziamo la vita pubblica”. Quando la corruzione viene scoperta, non ci si può limitare a cacciare quei quattro fessi dei corrotti conclamati e, auspicabilmente, condannati. A meno che non si dimostri che hanno rubato esclusivamente per sé, se i proventi della corruzione sono entrati direttamente o indirettamente nelle casse dei partiti o di quei soggetti esterni, esplosi in quantità allarmanti negli ultimi trent’anni, i centri studi, le riviste, le associazioni, allora, per dirla con una immagine e in una condizione nella quale verrebbe a trovarsi un cittadino qualsiasi, c’è ricettazione, in qualche caso incauto acquisto. Mi si passi la traslazione concettuale e l’approssimatività penalistica, per fare la seguente affermazione: via i corrotti, si, ma via anche i ricettatori e gli incauti acquirenti. Se i partiti si reggono, e per la parte in cui si reggono sulla corruzione, allora quei proventi non debbono essere utilizzati nel circuito della costruzione del gioco democratico e della formazione delle istituzioni democratiche.
Ammonisce, quasi bonariamente, Tocqueville: “si è parlato di cambiamenti nella legislazione. Sono portato a credere che siano non solo utili, ma necessari: perciò credo nell’utilità della riforma elettorale, nell’urgenza della riforma parlamentare; ma non sono tanto insensato, signori, dal non sapere che non sono le leggi in se stesse che fanno il destino dei popoli; no, non è il meccanismo delle leggi a produrre i grandi avvenimenti del mondo: ciò che fa gli avvenimenti, signori, è lo spirito stesso del governo. Mantenete le leggi, se volete, tenete anche gli uomini se questo vi fa piacere, ma, per Dio, cambiate lo spirito del governo, perché, ve lo ripeto, quello spirito vi porta nell’abisso”.
Quello spirito porta nell’abisso il nostro Paese. Sono trent’anni che leggi, leggine e proclami non hanno modificato l’elemento essenziale di cui l’Italia ha bisogno: la coesione sociale che è derivazione prima dello spirito del governo.
Ancora un paio d’anni fa un giornalista, Ferdinando Magnino, sul mensile “12 mesi” scriveva, non da indovino, “vent’anni dopo la caduta della prima Repubblica, siamo ancora, nostro malgrado, testimoni di spettacoli agghiaccianti che vedono come protagonisti i partiti e chi ne è incaricato della gestione amministrativa ed economica”. Auspicava per i partiti l’adozione di un modello di organizzazione come disegnato dal decreto legislativo 231/2001. Quel giornalista illuminato non s’era accorto che nella scorsa legislatura, un anno prima del suo articolo, era stata depositata una proposta di legge (n. 3615) sulla disciplina della responsabilità amministrativa dei partiti politici. In quella proposta, il vero si convertiva col fatto, per dirla con Don Sturzo. Nella relazione che la accompagnava si legge: “prima ancora di dissodare il campo dei principi di democrazia interna nel quale è coltivata la pianta dei partiti politici, oggi, nella loro dimensione di associazioni non riconosciute, è necessario affermare che i responsabili dei partiti politici, secondo il loro statuto, sono responsabili di tutte le azioni del loro partito… Mentre i partiti politici rischiano di essere considerati portatori di contagio nell’area odiosa della corruzione, è il momento di assoggettarli alle regole comuni”.
I partiti non solo l’hanno ignorata ma l’hanno temuta. Questa, tuttavia, è la sfida, questa è la modalità pressoché unica per battere lo spirito di governo che ci porterebbe nell’abisso, condito com’è di demagogia, populismi, violenza espressa nella forma della violazione del principio di affidamento costituzionale.
È ora di convertire il vero col fatto, viceversa, si resterebbe in uno stato di codardia nazionale, per usare, estensivamente, chiedendogli scusa per averlo fatto, il monito autorevolissimo di Papa Francesco.