di Claudia Boddi
Più 114,2% dal 2001 al 2009, è il dato riportato da una ricerca del Censis dal titolo: “La crescente sgretolazione delle pulsioni”, che fotografa il comportamento degli italiani in merito all’assunzione di psicofarmaci e altre sostanze agenti a vario titolo sul Sistema Nervoso Centrale. Una rilevazione che indica un aumento significativo del fenomeno in Italia anche se di dimensioni ancora contenute rispetto, per esempio, agli Stati Uniti – dove è più facile accedere agli psicofarmaci anche senza un percorso sanitario e questo ovviamente rappresenta un fattore di maggiore consumo – che si aggirano intorno a una percentuale di più 250.
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Studi recenti sulle Asl italiane hanno anche dimostrato come le prescrizioni annue di psicofarmaci e antidepressivi abbiano conosciuto un incremento del 63%, nello stesso periodo. Analizzando sempre le statistiche emerge che le persone che ricorrono maggiormente all’uso dello psicofarmaco sono soprattutto donne dopo i 45 anni e gli anziani over 75. A questo proposito, Luca Pani, direttore generale dell’Aifa (Agenzia del Farmaco) – ha suggerito un approccio globale alla salute, poiché non soltanto il farmaco può essere responsabile del suo miglioramento, spesso invece sono necessari interventi sugli stili di vita che possono di per sé far scaturire dei progressi nello sviluppo di determinate patologie.
Oltre agli antidepressivi, i farmaci più richiesti sono gli ipnotici – usati per esempio per dormire meglio – e gli ansiolitici che vanno a presidiare disturbi legati alla stanchezza, alla capacità di concentrazione, sintomi neurovegetativi e psicosamatici inevitabilmente legati anche alla condizione sociale attuale. L’incertezza rispetto al futuro, accanto alla situazione di forte crisi economica, politica e culturale, genera un sostanzioso calo della qualità della vita e della soddisfazione dei cittadini che per far fronte alle difficoltà di tutti i giorni spesso scelgono di affidarsi a soluzioni mediche. Inoltre, aspetti connessi alla storia genetica dei singoli come i periodi di grave crisi personale, durante i quali da soli riuscire a riemergere sembra davvero impossibile, costituiscono i principali fattori di rischio per questo genere di disturbi. Elementi su cui riflettere che raccontano di un disagio sociale in sempre crescente aumento ma anche di una progressiva diminuzione dello stigma legato ai disturbi di tipo psicologico che invita sempre meno a nascondersi e ad affrontare apertamente il problema con il medico di fiducia.
Diversa è invece l’analisi se la riferiamo sia ai mezzi di comunicazione che all’approccio al problema della gente comune che resta ancora molto negativo. Questo argomento è circondato a tutt’oggi da un fitto alone di reticenza poiché continua a rappresentare un grande tabù alimentato anche da una grossa dose di non conoscenza, infatti, questo tipo di disturbi appartiene all’individuo come qualsiasi altro quadro oncologico, diabetico o ipertensivo. Se scorressimo il nostro albero genealogico includendo una trentina di persone, ciascuno di noi troverebbe una zia affetta da una sindrome depressiva o una lontana cugina che, dopo il parto, non è uscita di casa per un lungo periodo di tempo.
Non si tratta di casi estremi di follia, pazzia o stati deliranti ma di disturbi psichiatrici minori. Per questo sarebbe auspicabile parlarne di più, anticipatamente e con maggiore chiarezza, prima che si trasformino in problematiche più complesse e prima che si sentano rimbalzare storie drammatiche tra i casi di cronaca del telegiornale.