Per riprendere la tematica su: Psicologo o Psichiatra, vi propongo un ipotetico caso clinico. L’esempio è semplice e come in tutte le semplificazioni rischio di perdere qualcosa ma, il tentativo è di chiarire quali siano nella clinica, le differenze sostanziali , tra l’approccio psicologico e quello psichiatrico.
G. ha 21 anni ed è uno studente di design industriale. Da un po’di tempo è irrequieto, irritabile, avverte fastidiose tensioni specialmente nella zona cervicale, fa fatica a dormire bene e nutre una serie di preoccupazioni circa ciò che gli amici che frequenta possano pensare di lui. Dopo averne a lungo discusso con i suoi genitori, decide di formulare una domanda di aiuto a un professionista della salute mentale.
Ipotesi 1: Si reca da uno psichiatra. Questi dopo averlo fatto accomodare, il professionista chiede a G. come mai abbia chiesto una consultazione. Il ragazzo descrive i sintomi che accusa. Il medico allora chiede da quanto tempo perdurino, approfondisce la natura delle preoccupazioni, stando attento a capire in che modo questi interferiscano nella sua vita sociale, affettiva, universitaria… al termine della seduta il professionista potrebbe giungere alla conclusione che si tratta di un disturbo d’ansia generalizzato. Egli prescriverà dunque una terapia farmacologica a base di SSRI e benzodiazepine. Lo psichiatra si premura altresì di insegnare a G. delle tecniche di rilassamento in modo da contrastare autonomamente i sintomi ansiosi, anche quando la terapia farmacologica verrà scalata. L’obiettivo del medico è ricondurre la mente di G. da uno stato di malattia a uno stato di salute e il professionista riterrà concluso il lavoro nel momento in cui G. presenterà una visibile attenuazione o riduzione dei sintomi.
Ipotesi 2: Si reca da uno psicologo. Dopo averlo fatto accomodare, il professionista chiederà a G. cosa l’abbia portato a chiedere una consultazione. Dopo la descrizione di G. anche lo psicologo sarà interessato a comprendere in che modo i sintomi interferiscano nella sua vita. Tuttavia potrebbe proseguire l’esplorazione chiedendo a G. se riesca a rintracciare nel periodo d’esordio una o più cause scatenanti, o di descrivere la natura delle sue preoccupazioni. G. potrebbe spiegare di avere la sensazione di “non piacere” ai compagni di corso, con i quali vorrebbe confrontarsi da pari, ma ogni volta che si propone di esporre il proprio punto di vista, proprio non ci riesce, sentendosi in difetto. Teme allora che gli altri lo giudichino un “fallito”. Con il procedere del colloquio G. racconta l’anno scorso fu lasciato dalla sua fidanzata, che gli confessò di avere una relazione con un altro ragazzo. G. fatica a parlare dell’episodio. Lo psicologo rimanderà allora al paziente che la fine di quel rapporto è stato un durissimo colpo alla sua autostima e che, in effetti, le sue preoccupazioni di “non piacere” hanno a che fare proprio con questa tematica. Il lavoro procederà in due direzioni: esplorare con G. le motivazioni per cui questa ferita continua a sanguinare (cosa ha rappresentato per lui quella perdita?) ed accompagnarlo nel processo di “riappropriazione” della propria autostima. Il lavoro potrà dirsi concluso quando G. avrà la sensazione di stare meglio, collegata a un modo diverso di vivere le relazioni con i compagni e forse persino con le ragazze.
Questa breve vignetta rappresenta in modo molto schematico la differenza nei due modi di lavorare: nel primo il medico conosce meglio del paziente ciò che il paziente lamenta, infatti utilizza un’etichetta diagnostica e procede con un intervento, con l’obiettivo di ricondurre uno stato di patologia a uno stato di salute; nel secondo caso lo psicologo esplora insieme al paziente il ruolo del sintomo ansioso nella sua vita, con l’obiettivo di intraprendere un percorso di sviluppo del funzionamento psicologico della persona e incrementarne il benessere.
La realtà poi è ben più complessa e sfaccettata… uno psichiatra che abbia una formazione psicoterapeutica può utilizzare un approccio esclusivamente psicologico, orientato alla comprensione del sintomo e all’esplorazione dei vissuti del paziente. Per contro, anche uno psicologo può scegliere di applicare un approccio medico, nel momento in cui utilizza delle categorie diagnostiche per dare un nome al disagio del paziente e gli proponga delle tecniche, degli esercizi per farvi fronte.
Ciò che io ho descritto sono delle semplificazioni di due approcci. “Va bene, ma qual è l’approccio è migliore?”, mi si chiederà. Ovviamente dipende dai casi: non si può pretendere di trattare psicologicamente una persona gravemente disturbata, che presenti deliri o allucinazioni, come non si può prescindere da un approccio farmacologico in caso di gravi disturbi dell’umore (come depressioni o disturbi maniacali) o in gravi forme di disturbi di personalità; per contro, non si può pensare di somministrare degli psicofarmaci persone che portino un malessere esistenziale (come un adolescente in crisi) o disagi di natura relazionale (“le mie relazioni con l’altro sesso non mi soddisfano”; “non sopporto la mia famiglia”; “vorrei lasciare il mio partner ma ho paura di ferirlo”).
Nei casi di psicopatologia conclamata, la ricerca dimostra che l’integrazione tra un approccio medico – farmacologico e uno psicologico – psicoterapeutico si dimostra la miglior risposta allo stato di disagio.
di: Dott. Alberto Longhi – Psicologo
Vicolo Curtatone, 1 Busto Arsizio (Varese) Tel. 339 7306996
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http://www.psicoterapiadinamica.it/2012/11/psicologo-o-psichiatra-questo-e-il-problema/#more-2369
http://www.psicoterapiadinamica.it/2012/08/psicologia-dellaggressione/
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