Di una cosa l’Italia ha un’assoluta necessità: liberarsi del ceto politico che l’ha governata per più di vent’anni. Ma una cosa l’Italia non riesce assolutamente a fare: liberarsi di un ceto politico che nel tempo ha distrutto la partecipazione sostituendola con la sudditanza, la cooptazione e dando briglia sciolta alla cultura perdente degli egoismi, dei familismi, del clientelismo a pioggia. E’ il problema di Amleto, rimasto sottotraccia per decenni, nascosto dalla polarizzazione attorno e contro Berlusconi, ma ora venuto pienamente alla luce con le larghe intese, cercate, volute, realizzate, quasi fossero una vera inaugurazione del monumento equestre all’inesistenza politica.
Il fatto è che le larghe intese sono nozze sterili tra una radicata concezione di mal governo insita nella classe dirigente italiana, arrogante e servile insieme, dinastica di fatto e la totale assenza di una contrapposizione ideale, consuntasi nella real politik. Sono nozze che non danno frutti se non per i soliti noti che possono accedere alle stanze dei bottoni, ma che è letale per il paese nel suo complesso. E anche senza battere il martello sulla tracotanza con cui viene perseguita l’iniquità, sulle bugie quotidiane che vengono ammannite per cercare di diminuire la pressione, è del tutto evidente che questo ceto politico non è in grado di farsi venire un’idea nemmeno sotto minaccia di morte, che prosegue con una pervicacia patologica proprio sul sentiero che è stato all’origine del declino.
Da una parte per tentare di incassare qualche soldo e compiacere così i servi sciocchi della Germania che chissà per quale stravagante ragione si ostinano a stare a Bruxelles e non a Berlino, si svenderanno gli ultimi gioielli di famiglia, gli ultimi beni dello stato, proseguendo in quell’opera di privatizzazione iniziato negli anni ’90 e il cui risultato è sotto gli occhi di tutti: pessima efficienza, cartelli monopolistici, pochi investimenti, innovazione assente, un capitalismo cialtrone che vive di svendite e di soldi pubblici. Dall’altro si vuole portare alle estreme conseguenze e secondo dettami ideologici liberisti la precarizzazione del lavoro. La fede che viene riposta in questa distruzione di diritti come motore economico, si è rivelata fasulla, frutto di errori intenzionali o meno e negli ultimi anni di crisi è stata smascherata rivelandone il volto politico dedicato alla “riduzione di democrazia”. E tuttavia il ceto politico non sa pensare altro, prosegue sulla strada inaugurata nel ’93 con l’accordo favorito da Ciampi sulla moderazione salariale per aumentare la competitività. Inutile dire che da allora non solo la rozza competitività alla quale si aspirava non è aumentata, ma ma è andata precipitando via via che si accumulavano i “pacchetti Treu”, le “leggi Biagi”, le manomissioni stupide del governo Monti. E con essa anche l’occupazione a parte qualche fuoco di paglia. Eppure non ci vuole un genio per capire che nella globalizazzione, la competitività di un Paese evoluto non può dipendere che in minima parte dai salari, ma che è fatta di innovazione, progetto, prodotto. Invece da questo punto di vista nulla.
Ci sono tabelle* che narrano impietosamente la tristissima storia del declino:
PIL
PIL PRO CAPITE
PRODUTTIVITA’
DINAMICA SALARIALE
E’ del tutto evidente che svendite e precarizzazione del lavoro sono state una iattura per il Paese e tuttavia questo ceto politico non riesce a trovare altro orizzonte, marcia gloriosamente verso il massacro italiano, ipnotizzata dai propri interessi oltre che dalla sua modestissima cultura, parlando nel migliore dei casi. E’ la paura del disastro verso il quale ci stanno portando è tale che paradossalmente riescono ancora a trovare credito. Tempi durissimi per Amleto.
*Cliccare sulle tabelle per ingrandirle. Esse sono prese dal saggio di Pasquale Tridico, ITALY: FROM ECONOMIC DECLINE TO THE CURRENT CRISIS, reperibile qui