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Punto

Creato il 22 febbraio 2013 da Pim

Aprì gli occhi lentamente, ridestandosi con fatica da un sonno denso. Dov’era. Merda, si era addormentato sulla poltrona del salotto, la coperta sulle gambe, la luce accesa. Guardò l’ora. Le sei del mattino. In che stato… Si ricordò di aver lasciato il cellulare acceso. Era ancora lì, sopra i libri e le riviste. Nessuna chiamata. Non si meravigliò. Avrebbe dovuto? No. Però aveva conservato un filo di speranza. Inutile. D’improvviso venne percorso da un brivido di freddo. Si alzò. Il termostato nell’ingresso segnava appena sedici gradi. Fuori la temperatura doveva essere sotto lo zero. Accese la caldaia, poi andò in bagno, si lavò il viso. Tra i capelli arruffati ne scorse uno bianco che gli scendeva dritto sulla fronte. Fece una smorfia. Era un segno, e lui ai segni credeva. Le cose inanimate suggeriscono chiavi di lettura cui occorre prestare attenzione. In qualche maniera c’entrava Jung. Sincronicità. Gli piaceva questo concetto. Coincidenze significative. E pensò a un’altra parola che negli ultimi tempi era ritornata insistentemente. Serendipity. Come quei marinai che erano partiti per l’India e invece avevano scoperto Ceylon. Solo che, a lui, Ceylon era stata fatale.

Quel mattino doveva rimanere a casa per completare una relazione cui aveva dedicato tutta la sera precedente. Facendo colazione, gli si riaffacciarono alcuni propositi concepiti mentre si trovava in quella terra di nessuno compresa nel dormiveglia. Solitamente cercava di evitare decisioni che gli sembrassero definitive, in qualche maniera irrevocabili. Preferiva lasciare aperto uno spiraglio a quelle eventualità inattese che la vita non di rado presenta. Stavolta gli si era affacciato un proposito risolutivo. E se questo pensiero per un verso lo turbava, per un altro lo inebriava. Un pensiero diabolico. Come la lucida esaltazione del kamikaze prima di gettarsi su un incrociatore americano.

Si mise all’opera. Aprì la valigetta ed estrasse una discreta quantità di appunti sparsi. Erano fogli di quaderno, pagine strappate da un’agenda, retro di fotocopie, persino un tovagliolo di carta ripiegato. Tutto quanto riempito di una grafia minuta, come un geroglifico di linee e punti che nessuno riusciva a decifrare (talvolta neppure lui). Conservava gelosamente le note scribacchiate di getto in qualunque luogo si trovava, nonostante le ricopiasse fedelmente sul computer. Considerava quella brutta copia come una testimonianza in presa diretta del proprio esistere, la prova certa del suo passaggio dentro il mondo. Una maniera per fissare e ricalcare tracce che altrimenti si sarebbero disperse nella memoria.

Raccolse alcune carte e cominciò a strapparle, una a una, lentamente, rumorosamente senza nemmeno controllarne il contenuto. Avvertì all'istante una fitta aprirsi nello stomaco e da qui prolungarsi fino al cuore, eppure il tormento che andava a infliggersi era necessario. Sebbene la natura del peccato commesso continuasse a rimanergli oscura, doveva espiare fino in fondo. Solo alla fine sarebbe guarito dal male. Qualunque esso fosse.

Tutta la carta, lacerto per lacerto, finì nel cestino dei rifiuti, tuttavia la sospirata catarsi non si realizzò. Anzi, ora si sentiva persino peggio. Tremava, come avesse la febbre alta. Chiunque altro, al posto suo, avrebbe pianto. Poteva fargli bene, certo, si sarebbe liberato di quell’angoscia incatenata dentro, l’orgoglio però gli vietava di concedersi simili debolezze. Nel tempo si era abituato a chiudere i canali lacrimali e a lasciar scorrere lacrime immaginarie. Era diventato un riflesso, non sarebbe stato capace di comportarsi in altro modo.

Ben altro compito lo attendeva ora. Si avviò al computer, lo accese, attese pazientemente che il monitor s’illuminasse. Cliccò sulla cartella dei documenti, scelse una sottocartella, la aprì, e d’improvviso apparve una foresta di file. Sospirò. In questo sancta sanctorum erano racchiusi gli ultimi dieci anni di parole, di emozioni, di racconti, di lettere, di confidenze fatte e ricevute. Scorse in sequenza i titoli, sorridendo mollemente. Ricordava per filo e per segno. Gli pareva di udire ancora il crocchiare della tastiera sotto le dita (una volta l’aveva paragonata alla vecchia Singer della nonna). Gli sembrava persino di udire lo strofinio sul tappetino del mouse (topolìn-topolìn).

Il ronzio del pc stava entrando in risonanza con il malditesta. Si lasciò andare sullo schienale della sedia e sospirò di nuovo. Esitò. Si domandò quale senso e quale utilità potevano racchiudersi in una radicale pulizia esistenziale come quella che si era imposto. Eppure no, non doveva abbandonarsi a quella marea montante di ricordi che lo stava trascinando via dal compito prestabilito. Chiuse gli occhi. La tensione lo stava sfinendo. Con un piccolo gesto selezionò tutto. Mouse destro, finestrella. Elimina. Spostare nel cestino? Ok.

Fu soltanto un click, ma durò una vita intera. La disperazione rimasta fin lì immersa nei fondali sabbiosi del petto proruppe in un singhiozzo sgraziato, una specie di verso primitivo che emergeva da un territorio sconosciuto. Le lacrime addensate fino a quel momento ruppero gli argini e cominciarono a sgorgare copiose, inarrestabili.

Andandosene, lei aveva portato via con sé tutte le parole che era stato capace di pensare. Gli aveva sottratto tutto l’amore che aveva scoperto, ritrovato, che non aveva mai saputo di possedere. Il cuore gli si era fatto da quel momento arido, desolato, come la savana dopo che un incendio ha appena finito di bruciare. Cosa avrebbe potuto scrivere adesso se non per sottrazione, cancellando lettera per lettera, fino a giungere a un’afasia perpetua. Avrebbe liberato nell’arena quel toro che era per lui la pagina bianca da riempire. Abbandonate muleta e banderillas in terra, serrati gli occhi, si sarebbe chinato e lasciato trafiggere senza opporre resistenza.

Certo, avrebbe continuato a riempire carte. Ma soltanto per lavoro, adempiendo rigidamente gli obblighi burocratici, adottando lo stile più asettico e impersonale che gli sarebbe riuscito. Il mondo gli era penetrato inaspettatamente tra gli strati delle convinzioni accumulate negli anni, subiva ora l’impatto della realtà a lungo rimasta fuori da sé. E quindi l’urgenza di tornare al presente, rioccupare uno spazio fisico, chiudere gli interstizi virtuali, riappropriarsi del tempo perduto.

Come ultimo, estremo, paradosso, decise tuttavia di consegnare alla propria memoria una testimonianza scritta di quella rinuncia. In quella stessa cartella rimasta vuota, aprì perciò un nuovo documento. E affidò alla luce vivida del monitor un ultimo racconto.

Questo.

Naturalmente ho cercato di non farlo apparire troppo autobiografico, ho inventato una situazione e particolari che fossero verosimili e non veri. Tuttavia non ho potuto impedirmi, per un’ultima volta, di nominare le cose con il loro nome. Anche quelle che ignoravo l’avessero.

Ora che sono arrivato davvero all’epilogo, lo ammetto, avverto un cedimento, una debolezza estrema che mi paralizza i movimenti delle dita, la resa mi frena i pensieri, non riesco a trovare il modo di concludere, no, è che non voglio trovarlo, resisto, provo come un vuoto, l’affanno mi chiude il petto, è la paura dell’addio, come alla stazione quando il treno parte, i fazzoletti sventolano, le lacrime spiovono, e io detesto quei momenti in cui l’irreparabile si compie, per questo alla stazione non ci vado più, per questo diserto i funerali e mi rintano in me stesso, per questo l’ho lasciata andare nonostante l’amassi, e adesso, adesso è la fine, no, la fine, dover mettere un limite, arrestare la corrente, interrompere il flusso, perché mi piaceva quando inventavo, mi sentivo bene, era come un orgasmo, e io vorrei godere ancora, senza limiti, ma non potrei più, tanto vale terminare qui, sì, la fine, perché, ancora un attimo, ti prego, lasciami scrivere ancora un momento, fammi correre su questi tasti come su un prato bianco, sotto la luna, come una volta, sotto la luna, ricordi, sì, lo so che ricordi anche se dici di no, dimmelo, ti prego, ancora una volta, ricordi, vero, ricordi, perché io non so dimenticare, non dimentico chi mi ha donato amore, anche solo per un breve istante, anche se mi hai sottratto una parte di me, anche se ora arrivo alla conclusione, perché un punto fermo devo metterlo, e dopo il punto non ci sarà più nulla, ti rendi conto, più nulla, il vuoto, sai cos’è il vuoto, ti spiegai una volta che conosco il vuoto, quando la vita scompare e non rimane che l’assenza, il niente, tu lo sai cos’è il niente, questo buio intorno, spesso, pesante, senza voce né rumore né odore, il silenzio assoluto, il pensiero che s’invola, via, via, lontano, per sempre senza lasciar traccia, mai più, come se non fosse mai esistito, al termine della frase adesso occorre un segno che porti al compimento, al completamento, e allora prolungo all’infinito quest’attimo eterno, ma in fondo all’infinito, all’indefinibile, all’inesprimibile, in fondo in fondo, la frase si chiude tuttavia sempre e comunque pur sempre e comunque con un.

(Prima stesura: novembre 2004)


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