Sentiamo spesso dire da venditori di bibbie sociali un tanto al chilo, grandi conferenzieri del piffero, che le divinazioni di Marx sulla fine del capitalismo, giunto ad uno stadio di irreversibile putrefazione finanziaria, si starebbero avverando.
Il povero Carlo viene tirato per la barbetta dai suoi seguaci e dai suoi nemici camuffati da amici, per basse ragioni di bottega o di nascondimento della realtà che, però, fanno alzare il loro reddito individuale e corporativo, a danno di quei dominati sempre accarezzati ma mai veramente rappresentati e tutelati.
I primi non hanno mai capito quello che Marx ha detto ed i secondi, invece, hanno capito benissimo che non c’è miglior seppellitore di una scienza, che fu realmente innovativa e destabilizzante, di chi tramuta, come un re Mida alla rovescia, un prezioso materiale teorico in un ammasso di merda teologica e dogmatica.
Innanzitutto, non essendo Marx, al contrario di questi imbonitori, un santone ma uno scienziato sociale, non faceva profezie e non dava ricette per le osterie del futuro. Egli, partendo dallo studio delle intrinseche dinamiche capitalistiche, aveva ipotizzato che tale modo di produzione (e di riproduzione sociale, perché il capitale non è una cosa ma un rapporto sociale), con la crescente centralizzazione dei capitali (risultato dell’applicazione del principio della razionalità strumentale al processo economico-produttivo) avrebbe finito coll’espungere i proprietari degli strumenti o mezzi di lavoro dalla fabbrica, dove il lavoratore cooperativo-collettivo (alleanza di braccio e mente, il cosiddetto General Intellect) sarebbe divenuto il soggetto indipendente della produzione che non avrebbe avuto bisogno di ricevere ordini dall’alto per pianificare ed eseguire le proprie operazioni.
I capitalisti, insomma, ormai avulsi dalla fabbrica si sarebbero trasformati in rentier disinteressati delle beghe produttive e si sarebbero dedicati esclusivamente alle speculazioni finanziarie, attraverso il prelevamento del plusvalore con la forza dei loro diritti azionari e l’utilizzo, o minaccia di utilizzo, della violenza dello Stato, ancora pienamente nelle loro mani.
Tuttavia, la mutazione che qui s’intravede a livello di mansioni esecutive e direttive nel processo produttivo (che per Marx è la base materiale della società) è fondamentale per rovesciare la vecchia formazione sociale, poiché le forze produttive, giunte a questo stadio del loro sviluppo, sono pienamente consapevoli del proprio ruolo, si sono ricomposte nella testa e nella mano, dopo essere state spossessate dei saperi e delle abilità prima riunite, essendo il rapporto a dominanza del sistema capitalistico non più coperto sotto una coltre di infingimenti automatici, ideologici, sociali ed economici ma esercitato col suo vero volto brutale.
Ciò avrebbe reso ancor più odioso il peso di rapporti di produzione e di proprietà limitanti le loro potenzialità, fino alla chiara percezione di essere sottoposti ad una vera e propria rapina da parte di classi dominanti parassitarie e asserragliate nei bastioni istituzionali da dove cercavano ancora gestire gli apparati coercitivi dello Stato, indispensabili per soggiogare le masse cooperanti e quasi sciolte dai vincoli di un modo di produzione in rottura.
Dirà precisamente il pensatore tedesco che quando ad un determinato stadio dello sviluppo storico-sociale i mezzi di produzione e di scambio, cioè i rapporti entro cui la società produce e scambia, non rappresentano più lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive e ostacolano la produzione, il modo di produzione corrispondente non può che essere spezzato.
L’economista veneto Gianfranco La Grassa spiega sicuramente meglio di me questo passaggio che troverete in un ebook di prossima edizione (e chiedo venia all’autore se mi permetto di anticipare qualcosa che è di rara chiarezza): “…La prima conseguenza di queste trasformazioni era (sempre per Marx) l’impedimento posto da una proprietà siffatta al pieno sviluppo delle potenzialità contenute nella riunione di direzione ed esecuzione (potenze mentali e manuali) nel lavoratore collettivo. La dinamica capitalistica aveva mostrato – a causa della “concorrenza” per battere gli avversari, quindi non certo per consapevolezza dei capitalisti/proprietari – la forza della razionalità del minimax (e del coordinamento e cooperazione tra più operazioni lavorative) proprio nel suo campo specifico d’applicazione: l’unità produttiva (la fabbrica). Diveniva però anche evidente quanto sarebbe stata ancora più produttiva se si fosse estesa al coordinamento e cooperazione di un numero sempre maggiore di unità produttive. La dinamica del capitale, per sua intrinseca “natura”, indicava la via che dalla centralizzazione dei capitali – ormai divenuta centralizzazione finanziaria dopo la separazione della proprietà del capitalista dalla sua funzione direttiva nella produzione – avrebbe condotto all’effettiva centralizzazione riferita al coordinamento delle varie unità produttive. Da qui nasceva l’idea che fosse possibile la pianificazione generale centralizzata della produzione; non per semplice imposizione d’imperio, seguendo invece l’andamento dello sviluppo delle forze produttive, socializzate inconsapevolmente dalla stessa dinamica dei rapporti capitalistici. Tuttavia, a tale sbocco “naturale” (naturalmente sociale) faceva da ostacolo e limite la proprietà ormai dedita a manovre finanziarie. In definitiva, questa possibilità (e potenzialità) si sarebbe scontrata con la resistenza dei proprietari, ormai azionisti e dediti alle operazioni di Borsa, ecc., ai quali conveniva perciò non spingere la centralizzazione oltre certi limiti che, annullando progressivamente l’intermediazione mercantile, avrebbe fatto venir meno anche la necessità del denaro”….” Quest’ultimo – nella formazione capitalistica caratterizzata dal generale scambio di merci; e già sappiamo nell’ambito di quale rapporto sociale (che è il capitale) si generalizza lo scambio mercantile – allarga necessariamente le sue funzioni: da semplice intermediario alla misura del valore e alla sua accumulazione, facendo confondere il suo possessore, convinto che esso possa accrescersi a partire da se stesso, salvo poi patire il tracollo delle crisi. Se fosse finita la funzione del denaro (ridotto al ben noto buono certificante il lavoro prestato come Marx pensava sarebbe accaduto nella fase socialista), sarebbe stato messo in scacco il diritto di proprietà sulle unità produttive, il controllo tramite pacchetti azionari di queste ultime, la nomina dei consigli di amministrazione indispensabili a mantenere in piedi la distribuzione in dividendi azionari del profitto (plusvalore/pluslavoro estratto al lavoratore collettivo di fabbrica); distribuzione che spesso non viene effettuata (a decisione però dei consigli nominati dai proprietari d’azioni), ma che non deve essere eliminata quale diritto ad effettuarla, altrimenti non esistono più titoli dotati di valore, quindi immediatamente scambiabili in denaro, base indispensabile per la partecipazione a tutte le manovre di Borsa, ecc. ecc.
La semplice centralizzazione dei capitali, quindi, sarebbe entrata in conflitto con quella delle unità produttive, promossa dai vari gruppi del lavoratore collettivo cooperativo. La prima avrebbe dovuto (e voluto) conservare lo scambio di merci e la funzione del denaro per compiere tutte le varie operazioni di Borsa e finanziarie; si sarebbe quindi opposta tenacemente alla centralizzazione produttiva oltre dati limiti. Ma è quest’ultima che, allargando progressivamente l’ambito del coordinamento cooperativo e dunque l’applicazione sempre più consapevole della razionalità del minimax, sarebbe in grado di consentire quell’incremento esponenziale delle forze produttive in grado di realizzare l’obiettivo del comunismo: “a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Ecco il perché della predizione marxiana e marxista (e anche leninista) secondo cui il rapporto di capitale avrebbe infine bloccato lo sviluppo delle forze produttive, facilitando la presa di coscienza dei lavoratori in merito alla rivoluzione. Arrivati alla fase della centralizzazione capitalistica, cioè della separazione di proprietà e direzione con le varie conseguenze che già conosciamo – fra cui la creazione della proprietà azionaria e l’estrazione del plusvalore mediante le nuove forme di controllo sull’unità produttiva (la fabbrica, sede del lavoratore collettivo), che poi conducono alle manovre sui pacchetti azionari, ai giochi finanziari, ecc. – sarebbe stata bloccata l’ulteriore socializzazione delle forze produttive. Quest’ultima, quindi, avrebbe oggettivamente richiesto la rimozione di tale ostacolo al coordinamento delle unità produttive e al conseguente superamento del mercato, comportante necessariamente il denaro con tutti gli effetti cui dà origine”.
Spiegate così le cose si intende alla perfezione quanto siano dei perfetti idioti o dei perfetti furfanti tutti quelli che, nel tentativo di supportare i loro vaneggiamenti sulla presunta attuale fase di putrefazione finanziaria del sistema, tirino in ballo Marx per il quale, piuttosto, il processo di decadenza finanziaria del capitalismo sarebbe coinciso con la formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato, dall’ingegnere all’ultimo giornaliero, nel processo produttivo. Poiché di questo soggetto, prossimo alla presa del potere, non c’è traccia e mai ci sarà, se di declino sistemico si tratta in questa fase, ma ne dubito fortemente, quello che loro dicono non ha proprio nulla a che vedere con quanto aveva previsto dal Moro nel suo apparato teorico. A noi proprio non va giù che cacciatori di voti provenienti dalle schiere dei dominanti, carpitori di buona fede generale per posticini in parlamento o nelle istituzioni, presenzialisti dei talk show televisivi e sognatori ad occhi aperti di trasformazioni irrealizzabili si facciano abusino di Marx e della nostra pazienza. Consideriamo, inoltre, degli assoluti obnubilatori, non dico della verità, ma almeno delle possibilità di cogliere meglio gli aspetti fondamentali dell’epoca presente, quegli accalorati traghettatori dei cervelli altrui nel mare di teorie economicistiche che sono storicamente e socialmente mute, per quanto impegnate a destrutturare le vulgate finanziarie ufficiali. Tuttavia, non saranno né le intemerate contro le banche dei grilli sparlanti e coadiuvanti col caos, né le alternative miracolistico-monetarie di “San Barnardino” da Report, e tanto meno i tardivi tremori di Tremonti per il mercatismo predone a salvarci dalla disfatta. O questo Paese sarà in grado di esprimere una nuova élite dirigente con una visione politica e geopolitica indipendente, sapendosi adeguatamente ricollocare sulla scacchiera planetaria in movimento, o finiremo nel baratro con tutti nostri finti martiri e le nostre bizzarre teoresi da oratorio.