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“Q” identità collettiva di un senza nome

Creato il 09 gennaio 2012 da Scrid

Abbiamo finalmente terminato la lettura di “Q” di Luther Blissett e avremmo voluto ricominciare l’anno pubblicandone subito una recensione bomba, ma ci siamo resi conto di quanto sia difficile evitare di scrivere qualcosa di banale del tipo: è attualissimo, sembra racconti dei nostri giorni, ecc… ecc…, su un romanzo che tutto è fuorché banale, già a partire dal suo autore “senza nome” e un’identità collettiva.

Certo, non dobbiamo convicere nessuno della grandiosità di un libro che ha fatto il giro del mondo, è stato tradotto in una dozzina di lingue diverse ed è perfino passato tra le mani del Sub-comandante Marcos! Quindi, per una sorta di timore reverenziale, abbiamo deciso di raccontarvelo attraverso le stesse parole utilizzate dai WuMing nella newsletter “Giap” (quando era ancora una newsletter) celebrativa dei 10 anni dalla pubblicazione di “Q”. Il consiglio è quello di leggere comunque tutto l’articolo uscito nel marzo del 2009 poiché per quanto la trama e lo stile del libro siano avvincenti, ancora di più vi affascinerà scoprire la storia che si cela dietro quelle pagine; storia che ha continuato in un certo senso a scriversi anche dopo l’avvenuta pubblicazione.

[...] la vicenda di Q copre più di trent’anni di storia europea, dal 1517 (anno in cui Lutero inchiodò le sue tesi al portone della cattedrale di Wittenberg) al 1555 (anno della Pace di Augusta). Quegli anni tumultuosi sono, per storici e narratori, un serbatoio di preconizzazioni e tentativi pionieristici, perché i ribelli e i rivoltosi di quel periodo sembrano aver provato ogni sorta di tattiche e strategie [...]

erano ben lungi dall’essere matti: avevano programmi sociali (per quanto rozzi) e obiettivi concreti da realizzare. I loro bisogni erano reali e la loro prassi radicata nella realtà sociale dell’epoca. I loro successi parziali furono tangibili: conquistarono città, formarono consigli rivoluzionari e scossero la struttura di potere dalle fondamenta e poi su, su, fino a far saltare i denti marci dei principi. In un territorio feudale diviso in innumerevoli città-stato, la Guerra dei contadini fu una rivolta senza frontiere, nazionale e pan-germanica ben prima che la Germania diventasse una nazione. Gli errori dei contadini, ideologici e strategici, furono immanenti a quel contesto storico-sociale, ma la loro politica aveva iniziato a trascenderlo [...]

Ma perché tornare a raccontare quella storia? Perché un romanzo storico su un soggetto tanto anacronistico? Che significato potevano mai avere Thomas Müntzer e la Guerra dei contadini nei “ruggenti anni Novanta”? Il “comunismo” era stato sconfitto, la “democrazia” aveva vinto, la fede nel Libero Mercato era tanto indiscussa che in Francia si era coniata l’espressione “Pensiero unico”. L’ideologia neoliberista era trionfante. Davvero volevamo scrivere un romanzo su degli straccioni proto-comunisti dimenticati da chissà quanto? Certo che sì. In tempi di tracotanza controrivoluzionaria, al culmine del “decennio più avido della storia” (come lo avrebbe chiamato Joseph Stiglitz), un libro del genere era più necessario che mai [...]

E, infatti, il personaggio principale del romanzo “eroe privo di nome che si fa coinvolgere in ogni progetto sovversivo gli capiti a tiro” – dalla Guerra dei contadini alla presa della città di Münster da parte degli Anabattisti; dalla setta terrorista degli Armati della Spada (capeggiata da Jan Van Batenburg) alla comunità loista di Anversa; dal commercio di libri proibiti in Svizzera e Nord-Italia alla fuga finale dall’Europa, verso l’impero ottomano – diventerà un po’ l’icona in cui si riconosceranno le anime del movimento che prenderà vita proprio sul finire degli anni ’90 e che sosterrà la sua prova di forza, di lì a poco, al Genova Social Formu del 2001.

Come storicamente documentato, tutti usciranno sconfitti da quella prova e nel modo più violento possibile, esattamente come accadde cinque secoli or sono ai contadini rivoluzionari tedeschi caduti vittime del complotto del misterioso Q: uomo di fiducia del potere, colui che sta sempre in quella che oggi definiremmo la “zona grigia”.

Complotti, insurrezioni, secoli di repressioni, scusateci, ma come si fa a non sostenere cose banali come: “la Storia si ripete” e “il romanzo andrebbe letto da chi oggi si indigna e occupa le piazze”? Da questa prospettiva anche l’11 Settembre assume una valenza del tutto differente. Ma questa è un’altra storia, una storia successiva all’uscita del libro “Q”. Invece, nell’intento iniziale dei WuMing c’era solo la volontà di “scrivere un libro feroce e appassionato”.

Un libro che fosse consapevole di sé in quanto prodotto culturale (anzi, in quanto arma culturale), ma al tempo stesso non si nascondesse dietro il dito del disincanto cinico. Un romanzo che annunciasse il ritorno di una narrativa popolare radicale. Il mondo aveva bisogno di romanzi d’avventura scritti da gente che credeva in quel che faceva, disposta a sporcarsi le mani e mostrarle a tutti.

Sporcarsi le mani ha significato per i WuMing anche essere tacciati di furberia per aver utilizzato un linguaggio che in qualche modo strizzasse l’occhio al pubblico e al mercato.

[...] lo scrittore Stewart Home lo descrisse come un esempio di “postmodernismo proletario”, e l’accento cadeva sull’aggettivo, non sul sostantivo. Postmodernismo proletario. Etichette provvisorie come questa segnalano sempre che è in corso un cambiamento. Più tardi ne avremmo coniata una anche noi: “New Italian Epic“.


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