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Qingming Festival, ovvero un salto nella Cina dell’anno 1000

Creato il 04 aprile 2012 da Sirinon @etpbooks

La primavera sembrava promettere bene quell’anno. Le piogge erano state frequenti, il gelo aveva risparmiato le gemme sui gelsi ed il fiume, gonfio d’acqua e di limo, non aveva inondato campagne e paesi come sovente succedeva. Senza dubbio gli dèi del buon raccolto si erano ricordati di noi. Così rifletteva Lin Tchao, cercando di preparare in fretta il sacco per il viaggio ed incamminarsi, nonostante la nebbia stentasse a posarsi sui fiori quel mattino, per raggiungere coloro che si stavano dirigendo al porto sul fiume. Era il tempo della Festa di Qingming e ci si recava, come ogni anno, a trovare i propri defunti, cercando, nella nostalgia dei ricordi, di evocare storie passate, qualche episodio spiritoso o, ancora, raccontare loro di come era stato clemente il tempo, di come non vi fosse stato aumento delle tasse e di quanto, infine, si sperasse per il futuro raccolto che prometteva - a dar credito alle foglie dritte e costolute che, forti, si piegavano solo quando il vento si faceva insistente - di essere memorabile per quantità e per qualità. Sarebbero state necessarie ancora giornate di pioggia, di quella che scende leggera lasciando una coltre superficiale e trasparente che solo con la notte si sarebbe poi infiltrata nella terra come se un pianto leggero di gioia la riempisse di quell’amore che avrebbe poi restituito nel sapore dolce dei chicchi del riso. E nel colore ambrato e nella giusta grandezza e in quel suono frusciante quando lo si mostrava ai mercanti venuti dalla città. Ma era tempo di affrettarsi che già in lontananza il cigolare delle ruote sui mozzi dei carri si diffondeva tra le colline dalla strada che lentamente si riempiva di colori, suoni ed odori, procedendo sinuosa e lenta come il serpente del capodanno.

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A lato il fiume, il padre fiume, signore e buon dio di quelle terre, che si allargava placido, seguendo e proteggendo quanto della sua presenza viveva, cresceva, germogliava, moriva per poi rigenerarsi in quel divenire che è fuori del conto del tempo, come la strada che si era scavato arrotondando le rocce, cedendo al terreno più duro per allungarsi con anse morbide e fertili, folte di quei salici fronzuti che davano riparo nei giorni caldi alle carpe dorate e d’inverno trattenevano, intrecciando forti le radici, la terra degli argini, affinché non rovinasse nelle acque tumultuose di creste e di spruzzi. Era una simbiosi alla quale sembravano tutti adattarsi, non per una educazione ricevuta né per legge. Solo il senso, quello buono, che rispettava il signore del fiume come quello della terra e ancora del sole e della luna. Era bello parlare di questo con i propri cari defunti, ricordare con loro degli anni della gioia e di quelli difficili della carestia quando, come una fornace che tutto divorava e annichiliva, il sole aveva ridotto il fiume a ruscello, le piante a sterpi ossuti, la terra ad un reticolo duro e tagliente di zolle disseccate. Finalmente, in vista del ponte, ecco apparire dalla stradina laterale che portava al villaggio di Chenzù, l’amico Zuntai. Lin Tchao e Zuntai abitavano in due villaggi vicini, Fedong infatti, il piccolo borgo dove era la casa di Lin Tchao distava solo un’ora di cammino da Chenzù. Entrambi erano piccoli villaggi dove, tuttavia, le case immerse nel verde, i campi intorno coltivati, il vicino fiume ed il tempio sullo sperone a guardia della valle, rendevano la vita ricca di quel miracolo che era il risveglio di ogni mattino. Un abbraccio caloroso fra i due e l’inchino rituale diedero inizio alla festa. Ne avrebbero fatte di cose insieme in quel giorno! Già si vedeva infatti, sulla riva del fiume, in corrispondenza del molo di attracco delle giunche, quel teatro che tutti gli anni si soffermava in quel periodo, festoso per le sue bandiere al vento e per quel tendone, in verità ogni volta innalzato con qualche toppa in più o qualche indelebile macchia che raccontava delle peripezie passate, che si ergeva affollato e vociante nel prato solitamente adibito al sostare delle mandrie quando venivano portate al mercato. Non erano in realtà dei grandi attori quelli che proponevano la pantomima o, almeno, avrebbero potuto cambiare la rappresentazione anche se la storia della nascita del regno era, da sempre, quella più ambita, quella più amata, dove tutti si sentivano infine parte di qualcosa di grande, qualcosa che forse non avrebbero mai visto ma di cui almeno avevano sentito parlare; il regno e il re e tutti i cortigiani che sfilavano nel castello, quello che, tutti dicevano, si trovava quasi in fondo al fiume, nel punto dove questo si perdeva nelle acque di un grande lago che era il suo finale approdo, la sua eterna ed ultima dimora. Indecisi se prendere o meno posto sul palco, i due ragazzi vennero distratti da un suono di trombe e di tamburi, di quelli che solitamente accompagnano le portantine di quei personaggi misteriosi che mai si fanno vedere, nascosti da tende spesse e preziose. Troppa era la curiosità così che Zuntai prese per una manica Lin Tchao e via di corsa fino al centro del ponte per vedere, se magari, dall’alto, una qualche apertura avrebbe permesso loro di sapere chi, con tanta magnificenza, si faceva largo tra la folla che, per quanto folta, non lo degnava tuttavia neanche di uno sguardo, intenta com’era a non calpestarsi, a non finire sotto gli zoccoli di qualche asino o cavallo o, ancora, semplicemente impegnata nei propri affari. Saliti sul ponte si sbracciarono, saltarono, gridarono mentre si avvicinava la portantina da cui, all’improvviso, scostati i drappeggi, un viso dolce apparve, disegnato in un fine tratto che incorniciava due occhi neri come le perle più rare e due labbra cremisi da cui, con l’aiuto di una mano, partì un bacio leggero che li lasciò storditi mentre quella visione spariva tra il drappeggio che si richiudeva a nascondere il sogno. I ragazzi, sembravano due carpe appena pescate, con l’occhio sceso di un centimetro buono, le guance pesanti e arrossate e la bocca aperta come a cercare nell’aria che qualche boccone si infilasse da solo per la colazione. La colazione!!!

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Quasi si erano dimenticati, ecco cosa era successo: una allucinazione per la fame! Ma mentre si accingevano a prendere nelle sacche quanto si erano portati, ecco che Maestro Deng - che aveva osservato tutta la scena appollaiato sull’albero della sua giunca che stava per prendere la corrente - li richiamò: fannulloni, boccaloni, che fate, scendete dalle nuvole e venite che partiamo! - Maestro Deeeeeeeeng, Maestro Deeeeeeeeeeng: risposero i ragazzi ai quali la vista certo non mancava, mentre spintonando, scivolando, correndo, scalciando e sgomitando si facevano strada in senso inverso al gran numero di viaggiatori che ingombrava la strada parallela al fiume, fino a che, inseguiti da un numero impreciso ma certo ragguardevole di insulti e di maledizioni, giunsero a montare, saltando con rapidi balzi lungo lo scivolo di legno, sulla giunca di Maestro Deng. Forza, salite, facciamo colazione e poi si parte: così li accolse insieme all’abbraccio che due braccia antiche ma potenti li cinse con gesto fraterno ma deciso come si fa tra uomini, abbraccio che poi due mani sagge e gentili chiusero sulle loro spalle in una stretta di affetto che più di mille saluti raccontava. Era Deng un vecchio contadino di quella valle che aveva, alcuni anni prima, perso tutto, causa una devastante inondazione: tutto era stato portato via dalla furia del signore del fiume. La sua casa, il cavallo, l’aratro, le capre, le galline ed anche la voliera dove una famiglia di pappagalli vi abitava, oramai da tempo immemorabile, con la porticina aperta. Erano gli unici rimasti a fargli compagnia da quando la moglie aveva deciso che in questo mondo almeno, il tempo trascorso in compagnia era stato sufficiente e l’aveva lasciato, nella muta promessa di aspettarlo, oltre il fiume, oltre le montagne, oltre il cielo, là dove si sarebbero certo ritrovati un giorno. Terminò velocemente la colazione che uova, pane ed un delizioso dolce fatto con le more avevano designato come una delle migliori degli ultimi tempi, anzi, sicuramente la migliore dell’anno. Svelta fu slegata la cima che teneva la giunca controvoglia ferma in un’ansa al limitar della corrente, veloce fu alzato l’albero anche se, per il momento non vi sarebbe stata necessità della vela. La corrente era forte nel centro del fiume e l’acqua profonda la rendeva ancora più veloce. La giunca d’altronde era stata acquistata da Maestro Deng dopo il disastro, vendendo ad un grande commerciante quella sua terra disastrata dove, diceva, oramai abitavano solo ricordi difficili e la sfortuna. Avrebbe d’ora poi cavalcato e domato le onde, quelle stesse che sembravano avergli inviato un potente messaggio. Così Deng aveva disceso il fiume fino alla cittadina di Guanzong dove si diceva costruissero le giunche più forti dell’intera Cina. E così era stato infatti. L’imbarcazione si presentava solida e nel contempo snella, slanciata nella prua che quasi come un coltello si affondava nel fiume, impennandosi velocemente verso l’alto a mostrare la potenza che la lunghezza e lo spessore delle assi robuste e stagionate di cedro emanavano, diffondendo persino l’odore gommoso di quel legno che al signore del fiume era particolarmente gradito, specie nelle giornate calde, per quel suo rinfrescante gusto che gli parlava di colline lontane, di frutti succulenti, di fatiche antiche che si accumulavano, anno dopo anno, come piccole rughe che sul legno come sul viso di Maestro Deng, raccontavano di vite parallele vissute nel reciproco rispetto. La poppa infine che alta e largamente generosa si ergeva dietro quale solido appoggio per la grande pala del timone, era capace di contenere tanto riso da poter sfamare l’intera valle per un mese intero. Lin Tchao e Zuntai non smettevano di rincorrersi dalla vetta della prua alla cima del cassero di poppa mentre Maestro Deng, sotto l’apparenza di due occhi felici , guardingo scrutava ogni increspatura d’acqua, ogni cambiamento di colore, ogni sospetta folata di vento, affinché la navigazione che procedeva spedita, proseguisse senza intoppi anche se quella non era certo stagione né tale da incontrare banchi di sabbia, né, peggio ancora, tronchi trasportati dalla piena. Ma non si poteva essere mai sicuri. Il fiume era un dio buono ma esigeva rispetto ed il rispetto lo si dava con l’attenzione che si poneva nel cavalcarne le acque.

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Dopo un lungo tratto diritto e veloce si scorgeva in lontananza il Ponte del Dragone. Era questo un antico ponte, fatto costruire da oltre due secoli, che aveva sui suoi lati due piccole file di negozietti coperti da pelli indurite e temprate dal sole, tanto che sembravano scaglie di qualche drago, di quelli che, sicuramente - c’era chi li aveva visti, non dimentichiamolo - abitavano il fiume. Oggi era affollato al punto che ad un primo sguardo sembrava più basso del solito. Era una sosta obbligata quella. Quando fu costruito infatti, il progresso ancora di lì non era passato o, se lo aveva fatto, era stata giusto una visita di cortesia. Ancora non esistevano le giunche grandi che c’erano adesso e, più che altro, i grandi alberi capaci di portare delle vele grandi come il campo di riso di Zuntai e pesanti come cinquanta delle capre di Lin Tchao. Addirittura il fiume sembrava coperto di imbarcazioni da tante che ve ne erano attraccate sulle sponde, anche in doppia fila, come dice usassero oramai fare carri e carretti nelle città dove, in certe ore, era proprio impossibile passare. E mentre quella interminabile fila scomposta, vociante e brulicante di vesti sgargianti, di carretti ansimanti dalle narici stanche delle bestie da trasporto, di asini cocciuti che si mettevano al traverso dando quindi autorizzazione a chiunque passasse di dargli una bella ripassata col bastone sulla schiena, di signori a cavallo, di enormi fascine di erbe che sembravano camminare da sole e di portantine ed ogni qualsivoglia altra espressione dell’attività dell’uomo, sembrava si fosse data appuntamento per procedere insieme quel mattino, venne, alfine, il nostro turno di passare. Era un lavoro che andava concertato, come una sinfonia. L’acqua in quel punto, anche per colpa delle grandi fondamenta sommerse che reggevano l’unica possente arcata del ponte che come un grave sopracciglio sembrava sempre pronta a richiudersi sul tuo passaggio, non era molto profonda e, per evitare che le giunche, specie quelle molto cariche, si incagliassero, venivano aiutate da una serie di corde tirate dagli appositi manovratori sui due lati del fiume, in modo tale che l’imbarcazione potesse navigare al centro. Ma non era cosa semplice anche perché le fondamenta sotto il pelo dell’acqua creavano una serie di mulinelli che distoglievano la corrente dal suo corso abituale e quindi, ora bisognava tirare più a destra, ora più a sinistra, ora a destra si doveva spingere, ora a sinistra si doveva trattenere. A dirigere tutti questi movimenti ci pensava il padrone della giunca che con incitamenti o grida di avvertimento, gesti ampi delle braccia o l’asciutto battere delle mani, gesticolava e partecipava tutto di quel daffare, sentendosi potente ed inerme in quel gran trambusto che avrebbe potuto decretare un felice passaggio o, la più infelice delle rovine. Anche stavolta tutto si svolse con maestria e presto ci lasciammo il chiassoso Ponte del Dragone alle spalle. Il traffico sia sul fiume che per le strade che lo costeggiavano si faceva sempre più intenso: eravamo vicini alle mura, quelle che delimitavano i territori della città. Era la sua prima linea di difesa una volta, quando le lotte fra i vari potenti erano più frequenti, spesso, delle stagioni. Oggi le mura erano rimaste per lo più a significare la potenza della città ed a mostrare, qualora ve ne fosse stato ancora bisogno, che per i malintenzionati sarebbe stata vita dura. In realtà gli accessi, sia al proseguimento del fiume che alla città, erano costituiti da porte al cui passaggio era necessari pagare un pedaggio. Era una tassa questa però che tutti volentieri pagavano. Intanto erano solo 2 yuan, che tutti potevano avere, anche i più sfortunati e poi, con quella tassa, si provvedeva a controllare le condizioni della strada, gli argini del fiume, le guardie giravano giorno e notte per controllare che non vi fossero violenze di nessun tipo, insomma, serviva a qualcosa. Era sempre una grande emozione varcare il muro della città. Il fiume da lì in poi avrebbe proseguito maestoso, con un letto più largo e con un traffico minore perché molti, sia per la festa che per il mercato che si teneva giornalmente, avrebbero attraccato e sostato. Le porte si aprivano al mattino presto e si chiudevano al tramonto.

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Molti erano quelli che, giunti durante la notte, bivaccavano in attesa dell’apertura mattutina, momento che veniva scandito dal profondo cigolio dei massicci portoni che ruotavano su cardini grandi quanto il braccio di un uomo. Un suono intenso e grave che ricordava a chi si apprestava a varcare l’ingresso come da lì si accedesse ad un luogo importante dove, accanto al pullulare delle attività, vi erano il palazzo del governatore, i templi ed anche una biblioteca che si diceva (sempre si diceva…), risalisse ai tempi di Confucio. Una volta entrati, era inevitabile perdersi con lo sguardo, l’udito, l’olfatto, il tatto ed il gusto tra le continue curiosità che ci si presentavano davanti: dalle essenze profumate provenienti dai fiori delle montagne su al nord, ai piccoli chioschi dove si poteva mangiare qualcosa a qualsiasi ora del giorno e della notte, dagli osti sempre pronti a ravvivare quella cenere di legno di tamarindo che spandeva per l’aria un odore asciutto come il thè, quello nero, le cui foglie volevano acqua cristallina e mai bollente per non disperdere nelle mille bollicine la fragranza che portava con sé. E ancora i cammelli, sì quelli a due gobbe (tanto lo so che vi sbagliate), dal pelo lungo, che ondeggiano come fronde di salici al vento, mentre incedono in un passo regolare e felpato, o i cavallini ancora, capaci di trainare e trasportare il carico di un bue, o ancora i tiri a due ed a quattro pariglie per i carichi pesanti, come i marmi che in quel frangente stavano arrivando per terminare la Porta del Cielo, quella nuova che introduce ai Giardini del Silenzio.

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E ancora mercanti, contadini, viaggiatori e forestieri venuti, insieme agli aironi, ad annunciare la nuova e bella stagione, a mangiare quei ravioli stufati oramai divenuti famosi in tutta la Cina. Lontano dal chiasso e da quella attività che sembrava non avere mai riposo né rispetto per il giorno e per la notte, si trovavano i grandi giardini ed i palazzi, il cui retro era sempre nei pressi della riva del fiume tanto che Lin Tchao e Zuntai, a seguito delle indicazioni di Maestro Deng, potevano ammirare ora il Palazzo dalle Cento finestre, ora il Palazzo dei Sette Desideri o ancora il Tempio della Serenità o quello, riconoscibile per la sua copertura a forma di pagoda tutta dorata, della Pace Mattutina, incantevole da vedersi al mattino quando il sole ne faceva brillare la sommità con la prima carezza che sempre più intensa dispensava il risveglio su tutti i tetti del circondario che uscivano al giorno come se il velo della notte venisse riavvolto da mani invisibili, rendendo vivi e squillanti i suoni ed i rumori. Il fiume poi, con una lunga ansa sulla sinistra, aggirava il centro cittadino per allungarsi verso i Giardini del Silenzio, all’ingresso dei quali sarebbero stati accolti da un’altra cerchia di mura non meno imponente della prima. Tutt’intorno lo spazio era occupato da una moltitudine di persone che, tuttavia, in rispetto al sacro luogo cui stava avvicinandosi, attendeva alle proprie occupazioni nel silenzio o almeno limitando al massimo ogni possibile rumore, animali compresi, che mansuetamente si lasciavano condurre come inebriati da quell’atmosfera di assoluta, serena quiete. Le case poco distanti costituivano i sobborghi esterni della città, per lo più abitati dai guardiani e dagli attendenti dei giardini. Non vi erano taverne, né mercati, né altri luoghi deputati alle attività comuni. Il fiume stesso, chiuso in quel punto tra due anse che ne spezzavano la corrente, procedeva più lentamente, in segno di rispetto. Maestro Deng prese i ragazzi da una parte e spiegò loro che li avrebbe attesi fuori sulla giunca. Era un luogo quello dove occorreva recarsi da soli, senza nessun fardello addosso o accompagnatore, ad esclusione del proprio cuore e della propria coscienza.

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Per i ragazzi era la prima volta. Non sapevano che sarebbe stata la prima di molte e molte volte, né sapevano che un giorno avrebbero guardato il fiume attendendo anche se invano, l’arrivo della giunca per riprendere la strada di casa, trovando così il limite estremo della forza della memoria. In quel silenzio particolare dove anche un movimento riesce a fare rumore, tanto che gli aironi stessi, sui tetti delle torri, se ne stavano immobili, la giunca toccò terra con un leggero fruscio, strusciando le canne che popolavano la riva per poi affondare leggermente nel terreno umido del greto. Maestro Deng saltò giù legando ai sostegni di bambù l’imbarcazione mentre una scia trasversale dove si raccolsero i pesci a danzare, veniva a formarsi là dove la lunga pala del timone frangeva quella corrente così leggera che l’acqua d’intorno, sembrava immobile anch’essa.   I ragazzi scesero, salutarono con un cenno e si avviarono alla porta dove un guardiano, sempre con un gesto, fece loro cenno di entrare. I giardini si aprivano davanti agli occhi secondo un gioco di armonie cui tutto concorreva: i ponti, i vialetti, le piccole tettoie, le ombre sugli specchi d’acqua mai troppo grandi da disperdere l’attenzione, mai troppo piccoli da rinchiudere un’emozione. Un equilibrio talmente raffinato di sensazioni che i ragazzi solo istintivamente, rispondendo con un incantato silenzio, percepivano, inesperti ancora in quell’arte intima e segreta che avrebbe loro poi, un giorno, permesso di guardare tutte le pieghe del passato, trovando in esse tutti i perché del presente e le aspirazioni del futuro. Erano, i Giardini del Silenzio, il luogo dove insieme all’armonia delle forme si coglieva l’armonia del suono costruita su quella casualità che solo lo scrosciare di una cascata o lo stormire delle fronde possono creare o dove ancora l’apparente immobilità d’intorno non era segnale di inazione ma era quella frazione di vita necessaria a cogliere con i sensi, il giro di una foglia nel vento. Lin Tchao e Zuntai tornarono là ogni anno e sempre più spesso, chi passava loro accanto, li trovava con un lieve accenno di sorriso sulle labbra, talvolta con la testa che si piegava di lato per assentire, accompagnata da gesti leggeri con le mani. Stavano parlando con gli spiriti dell’acqua, degli alberi, della terra, con quelli della vita. Ciascuno raccontava loro un pezzo di storia, quella che sapeva o che conosceva per sentito dire. Ogni volta se ne tornavano con un pizzico di serenità in più, quella che avrebbe permesso loro, un giorno, di diventare Maestri, come Maestro Deng, pronti per navigare sulla giunca della propria memoria.

Se siete arrivati fino a questo punto è giusto compensare la vostra fatica. Non so se la storia di Lin Tchao e Zuntai sia esistita da vero. Per me è la storia che mi è stata ispirata dall’osservazione piacevolissima di una antica opera cinese che parla di una festa che si tiene in questo periodo dell’anno, festa durante la quale si usa stare in compagnia dei propri cari defunti, allestendo piccole cerimonie durante le quali spesso le urne cinerarie vengono portate a casa dai parenti. “Lungo il fiume durante il Festival di Ching-Ming”, questo il titolo, è un’opera databile tra il 1085 ed il 1145, data di nascita e di morte di Zhang Zeduan, pittore che volle immortalare questa ricorrenza nella citta di Kaifeng, al tempo capitale durante la dinastia Song. Recentemente, in occasione dell’Expo tenutasi in Cina nel 2010 tale opera che ha delle dimensioni incredibili in quanto è lunga 24,5 metri per un’altezza di 5,28, è divenuta anche una piccola perla multimediale che potrete godere qui ricordandovi di muovere da destra verso sinistra con il mouse per scorrerla e di cliccare dove trovate dei riquadri bianchi in modo da aprire i piccoli movies che la accompagnano.

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