Quattro registi di quattro nazionalità diverse, quattro modi diversi di affrontare la minaccia più terribile che il cinema abbia mai generato: questa è la quadrilogia di Alien. L’inglese Ridley Scott, il canadese James Cameron, lo statunitense David Fincher, il francese Jean-Pierre Jeunet sono infatti i cineasti che si sono alternati alla direzione della saga che, incontestabilmente, schiera alcuni dei migliori esponenti dell’immaginario visivo contemporaneo. Prima che Hollywood decidesse di dar vita filmica alla disputa da pischelli del quartiere sul quale padre (pardon, mostro) fosse il più forte (i due episodi di Alien vs. Predator), milioni di spettatori avevano preso atto con raccapriccio dell’idea che nell’insondabilità dello spazio più profondo potesse celarsi un incubo ancora maggiore di quelli che viviamo da secoli sul nostro pianeta Terra. È notorio che con l’esplorazione dell’universo, l’ignoto amplia a dismisura i propri domini. L’uomo, grazie alla tecnologia, è (o lo sarà a breve) finalmente capace di addentrarsi nei misteri cosmici che da sempre lo tormentano. Ma, più che un possibile svelamento, l’avventura più grande mai tentata dalla nostra specie può rivelarsi un inabissamento. Infinito è l’universo e infinite le incognite che racchiude. E se lo spazio non fosse in grado di dare risposte, se riuscisse invece soltanto a fornire nuove angosce, fino a giungere a una forma di paura mai sperimentata prima? Correva l’anno 1979 e queste erano alcune delle domande a cui “Alien”, di Ridley Scott, sottendeva velatamente. Dopo decenni di extraterrestri sì minacciosi ma comunque innegabilmente antropomorfici, il regista inglese tornava all’origine etimologica della parola Alien, per immaginare un essere che fosse veramente Altro da noi, che non rispondesse alle nostre dinamiche e nemmeno alle leggi di causa-effetto vigenti sulla Terra.
In questo senso la trovata geniale dell’artista svizzero Hans Ruedi Giger che disegnò l’essere e che per questo vinse l’Oscar, è la forma della testa dell’alieno. Esageratamente oblunga, inutile, pesante, essa inficia parzialmente la perfetta struttura del predatore. Perché Scott e la produzione avallano questa scelta? Perché con essa vogliono ricordare che l’universo non debba necessariamente seguire le scelte dell’adattamento naturale vigenti sul nostro pianeta. Alien è il ghiribizzo di un Demiurgo a noi sconosciuto, di cui non possiamo nemmeno immaginare le motivazioni. In questo senso, sappiamo che la maggiore paura dell’uomo nasce sempre da ciò che non si comprende e in particolare in questo film, dall’istinto assassino di un predatore extraterrestre che uccide non soltanto per nutrimento o per difesa, ma per l’istinto congenito che connatura tutta la sua specie. O tutte le fasi della sua crescita. Imbozzolato in un uovo, la prima forma di Alien, il cosiddetto “Facehugger”, si attacca infatti senza scampo al viso della sua vittima fino a iniettargli un parassita al suo interno. Questi, dopo un breve periodo di incubazione, fuoriesce dal corpo dell’organismo che lo ospita spaccandogli il torace. L’essere cresce misteriosamente (in nessun episodio della saga si vede una scena che esplichi la maniera in cui ciò avvenga) fino a diventare un mostro nero e vischioso, alto due metri e dall’agilità e forza straordinarie. La quadrilogia di Alien si contraddistingue da altre affini per la similarità di ambientazioni e temi che, pur non rinunciando alle novità portate da ogni episodio, vi imprimono un marchio ben preciso. Per quanto riguarda l’Alien vero e proprio ad esempio, è evidente la fascinazione che suscita in ognuno dei registi che l’hanno diretto.
Scott e Fincher si concentrano sul disegno di morte che un singolo essere riesce a ordire pur fronteggiando umani equipaggiati meglio di lui. Cameron e Jeunet invece preferiscono mettere sullo schermo più alieni alla volta. Queste due scelte comportano stili di regia corrispondenti. “Alien” e “Alien 3″ contaminano la fantascienza con gli effetti truculenti dell’horror, la suspense e la claustrofobia del thriller, e con la sporcizia di ambienti e toni crepuscolari di certo western. “Aliens” e “Alien: Resurrection” giocano più con i toni dell’action, il che comporta una maggiore ironia e personaggi tipicamente di genere. Quanto successo di critica e pubblico avesse raggiunto nel frattempo la creatura è dimostrato dalla sua presenza nel primo e nell’ultimo film della quadrilogia. Se Scott giocava al risparmio, lasciando che il terrore esplodesse con tutta la sua forza soltanto nell’ultima scena dove Ripley espelle Alien dalla navetta di salvataggio, Jeunet compie un’operazione che ha già assorbito i desideri dei fan, regalando al mostro una presenza che in minutaggio supera di gran lunga i precedenti lungometraggi. Poiché si tratta di produzioni alternatesi nell’arco di circa un ventennio, gli episodi della saga di “Alien” muovono in direzioni diverse tra loro. Inoltre i quattro registi imprimono con vigore ognuno il proprio peculiare stile cinematografico, lasciando da parte obblighi cronologici e di significato. Così Cameron in “Aliens” si sente libero di portare nella sua opera ben pochi dei lasciti che il capostipite di Scott faceva intravedere. All’autore canadese importa piuttosto mettere su schermo il suo solito baraccone militare, fatto di marines spacconi e le virago che tanto lo attraggono.
D’altro canto, quando il timone passa a Fincher, si avverte un’ulteriore sterzata stilistica. “Alien 3″ è attraversato da un’oscurità scenografica e stilistica che rinnegano il precedente episodio e che avrebbero voluto concludere la saga nel modo più drammatico possibile con il sacrificio di Ripley. Dei due protagonisti della saga solo il tenente, interpretato da una credibilissima Sigourney Weaver, compie un’evoluzione (involuzione a giudizio di chi scrive). L’alieno, nonostante le varie sceneggiature, resta (per fortuna dello spettatore) lo stesso predatore implacabile. Solo Jeunet si azzarda nel finale del film da lui diretto a immaginare una creatura che, grazie alle cellule del tenente Ripley, abbia caratteristiche umane. A parziale salvataggio del regista francese va la scelta della morte splatter che riserva all’alieno dall’esagerata espressività facciale. Alien, in nuce, non è l’incubo di una genetica distorta o di una spietatezza lucrativa umana, troppo umana. La rottura, da parte di Ripley, delle celle di vetro con gli aborti della fusione tra lei e l’alieno (nella quarta pellicola), resta purtroppo il punto più basso raggiunto dalla saga per superficialità e banalità. Quando la critica alla fantomatica società farmaceutica che vorrebbe studiare il mostro resta sottotraccia, la quadrilogia raggiunge i suoi apici. Allora il recentissimo “Prometheus” rischia di essere un’operazione sbagliata sin dalle premesse. Non una goccia di sudore sarebbe stata risparmiata all’equipaggio della “Nostromo” se essi avessero conosciuto le origini dell’incubo che ha cambiato per sempre le sorti della fantascienza cinematografica. Di fronte a orrori così terribili, all’uomo non resta altro che tremare.