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La vittoria del "sì" al referendum sulla riforma della Costituzione svoltosi il 12 settembre in Turchia, comunque la si voglia vedere, è stato prima di tutto un successo del premier Recep Tayyp Erdoğan e del suo partito Akp. La dimensione dellla vittoria (quasi il 58% di "sì" contro il 42% di "no", con un'affluenza alle urne di quasi il 74%) apre ora la strada ad una nuova probabile affermazione dell'Akp alle elezioni del luglio 2011. In effetti, l'Akp ha fatto campagna praticamente da solo in favore delle modifiche costituzionali e ora si prepara a incassarne da solo i benefici il prossimo anno, anche perché, all'opposizione, i nazionalisti del Mhp rischiano di restare esclusi dal prossimo parlamento, mentre il Chp, il Partiro repubblicano del popolo erede diretto del padre della patria Kemal Atatürk, appare in grave crisi e ancora non si sa se il nuovo leader Kemal Kılıçdaroğlu sarà in grado di risollevare il partito in tempo utile per una campagna elettorale che sta per cominciare e che avrà probabilmente nel proseguimento delle riforme uno dei principali motivi di scontro.
Naturalmente la misura della vittoria di Erdoğan ha vieppiù allarmato gli ambienti laici timorosi ora più che mai di una riforma che, a loro giudizio, minaccia l'indipendenza della magistratura e la separazione dei poteri, e spiana ancora di più la strada all'islamizzazione del paese. Ma come ha spiegato il professor Soli Ozel sull'Espresso, in realtà e contrariamente a ciò che molti, anche in occidente, hanno detto e scritto, il nodo della questione non è la possibilità che la Turchia diventi uno stato islamico governato dalla shari'a, ma il futuro della democrazia turca. L'Islam non c'entra: il vero oggetto del referendum riguardava la redistribuzione del potere e i cittadini turchi hanno chiesto di voltare pagina rispetto ad un passato in cui la politica è stata posta sotto tutela da parte di militari e magistratura. Ed è assai probabile che, piuttosto che la milizia islamica degli anni giovanili, la vittoria referendaria possa piuttosto risvegliare in Erdoğan le ambizioni presidenziali. Forte del successo, infatti, il premier a questo punto punterà ad ottenere un terzo mandato l'anno prossimo per poi evetualmente fare rotta sulla presidenza della repubblica nel 2012, magari dopo aver cambiato la legge elettorale in senso presidenzialista.
La riforma della Costituzione rientra nella lotta tra poteri in atto in Turchia da diversi anni. Può rafforzare la democrazia, ma il processo non va dato per scontato. La messa in discussione dei principi kemalisti può essere un passaggio importante verso una maggiore democratizzazione, ma può anche preludere ad un attacco ai fondamenti della repubblica laica. La questione quindi è vedere come le riforme saranno ora concretamente attuate e quali altre riforme saranno proposte dal governo. Non ci vorrà molto per capirlo e per capire se la Turchia sta andando verso un sistema democratico compiuto o verso una qualche forma di autoritarismo moderato. In questi mesi il paese ha sofferto una polarizzazione della politica sempre più marcata che non ha certo giovato alla ricerca di riforme condivise. Al contrario, le riforme hanno rappresentato un ulteriore motivo di scontro e di divisione tra le forze politiche e sociali. E' probabile che la contrapposizione aumenti con l'avvicinarsi delle elezioni. Se così sarà si profilano i due scenari indicati da Nathalie Tocci in un articolo pubblicato sulla rivista on-line Affari Internazionali.
Nel primo caso, un Erdoğan, sempre più sicuro di sé e forte del consenso della maggioranza dell'opinione pubblica, decide di continuare con le riforme in modo unilaterale con lo scopo di rafforzare il proprio potere e l'affermazione dei ceti che costituiscono la sua base sociale. In politica estera ciò potrebbe tradursi in una sempre maggiore indipendenza rispetto alle tradizionali alleanze con l'occidente e ad una definitiva rinuncia all'integrazione europea puntando sul ruolo di potenza regionale che deriva dalla collocazione geopolitica della Turchia. Nel secondo caso, invece, si apre un dialogo sul proseguimento delle riforme tra le forze politiche e sociali. Questo porterebbe ad una attenuazione delle tensioni interne e gioverebbe anche alla ricerca di soluzioni per la questione curda, per quella armena e per quella cipriota. Probabilmente nei prossimi mesi il pendolo oscillerà tra questi due estremi. La prevalenza dell'uno o dell'altro dipenderà prima di tutto dagli attori politici turchi, ma una saggia e lungimirante azione dell'UE potrebbe favorire il secondo, facendo uscire il negoziato per l'adesione di Ankara da quella morta gora che lo sta condannando ad una lenta agonia.
Emma Bonino, in un'intervista a Radio Radicale il 13 settembre, giudicava la vittoria dei "sì" al referendum "un grande passo in avanti, anche rispetto alle richieste di adattamento costituzionale fatte dall'Ue ad Ankara per il processo di integrazione che però nel frattampo, con l'alibi di Cipro usato soprattutto da Francia e Germania, si è arenato". Per questo, secondo Bonino, ora l'Europa deve riprendere, accelerando di molto, il processo di integrazione della Turchia. Insomma, la palla passa ai Ventisette, ma attenzione perché se è vero quello che ha scritto Şahin Alpay su Zaman, la vittoria del "sì" è un passo decisivo verso la transizione democratica e liberale del paese, ma l'ingresso nell'Ue non è più il motore di questo processo epocale. Alpay cita un recente intervento di Fadi Hakura, esperto di Turchia di Chatham House, in cui mette in discussione l’opinione diffusa seconda cui senza l’Europa "la Turchia sarebbe incapace di diventare una democrazia liberale". Secondo Hakura "mentre il processo di adesione all’Unione Europea è in agonia, la società turca sta vivendo una vera trasformazione e si sta avviando verso una vera democrazia, una società laica e un generale processo di rinnovamento socio-economico". Quindi, "l’Europa sbaglia a tenere in disparte quello che è un autentico faro di speranza e ispirazione per molti paesi, musulmani e non, capace di plasmare il proprio futuro facendo affidamento unicamente sulle proprie forze". In ogni caso per la Turchia, dipendere meno dall’Ue significherà in definitiva "affrancarsi dal mito che soltanto l’Europa può incoraggiare la sua liberalizzazione e, di conseguenza, quella dei paesi arabi mediorientali”.
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