“Date a Cetto quel che è di Cetto. Accetto”
Come un po’ tutti i personaggi che popolano il piccolo schermo tricolore, era prevedibile che, prima o poi, anche il depravato, ignorante e corrotto imprenditore calabrese Cetto La Qualunque – nato nel 2003 all’interno della trasmissione Rai “Non c’è problema” e raggiunto il consenso del pubblico nel programma Mediaset “Mai dire domenica” – sarebbe stato sfruttato in ambito cinematografico.
E, ovviamente, sotto la regia del Giulio Manfredonia che già lo diresse in “E’ già ieri”, del 2004, è il comico Antonio Albanese a concedergli anima e corpo all’interno di una vicenda che, dopo una lunga latitanza all’estero, lo vede impegnato a farsi eleggere sindaco della propria cittadina, in quanto venuto al corrente del fatto che sue proprietà sono minacciate da un’inarrestabile ondata di legalità pronta ad invadere il posto tramite la figura del candidato Giovanni De Santis alias Salvatore Cantalupo.
Una vicenda che, tirando in ballo l’immaginario PDP, ovvero il Partito du pilu, lascia sicuramente (intra)vedere allegorici riferimenti (volontari?) agli scandali legati al berlusconismo d’inizio XXI secolo, sfruttando però simboli e colori che sembrano attingere da un po’ tutto il panorama politico dello stivale.
Del resto, mentre strappa risate nel chiedersi se sia legale schierarsi dalla parte della legge e nell’obbligare il figlio a non indossare il casco quando va in moto, poco c’interessa sapere se rientri nella destra o nella sinistra il grottesco cafone del sud Italia convinto che non siano le donne a dover entrare in politica, ma che sia essa a dover entrare in loro.
Un cafone che non paga le tasse per paura che poi gli venga la voglia di continuare a farlo e il cui motto è “più pilu e cemento armato”; mentre a contornarlo sono, tra gli altri, la povera moglie Carmen interpretata da Lorenza Indovina, Jerry alias Sergio Rubini, impegnato a fargli da suggeritore per il comportamento da assumere nel periodo delle elezioni, e una bella ragazza di colore con le fattezze di Veronica Da Silva, alla quale si è legato quando era all’estero, ma che chiama “Cosa” perché non ne ricorda il nome.
Tutti al servizio di una lunga barzelletta su celluloide il cui umorismo, però, tenendo in considerazione le drammatiche tematiche affrontate, non sembra celare troppo un certo velo d’amarezza, tanto da ricordare in alcuni punti le commedie più feroci di Mario Monicelli.
Anche se qui, più che dalle parti del cinema vero e proprio, l’impressione è quella di trovarsi dinanzi ad uno spettacolo teatrale trasposto su pellicola che, pur tendendo ad afflosciarsi nel corso della sua parte centrale, viene gestito a dovere da Manfredonia, il quale confeziona un prodotto capace di andare leggermente al di sopra della media, intrattenendo in maniera efficace il pubblico.