Quando anch’io sono stata complice

Creato il 10 maggio 2012 da Elenatorresani

Ora che il dibattito sui femminicidi si è fatto così intenso grazie al lavoro instancabile di alcune esponenti importanti del panorama culturale italiano (SNOQ, Lorella Zanardo, Loredana Lipperini, Michela Murgia e molte altre), firmando l’appello “Mai più complici” ho cercato di riflettere sulle forme di complicità meno evidenti che ci concediamo. Ho pensato a quando ho taciuto e forse non avrei dovuto.
Lo scorso agosto nella Piccola città di C. un fatto di sangue ha sconvolto la provincia: un uomo ha ucciso sua moglie a coltellate, e poi si è tolto la vita.
Non entrerò nel merito delle dinamiche famigliari, che si dice fossero seriamente compromesse da tempo, e non parlerò nemmeno della capacità di saper chiedere aiuto, né della dignità che abita nel voler chiamare le cose col proprio nome.
Perché quello che oggi mi porta a scrivere questo post è stata una dichiarazione che ho letto sui giornali:

Francesco Pesatori, un esponente locale di spicco di Cl e Pdl, è stato intervistato dai giornalisti sulla vicenda in quanto la vittima, la donna, faceva parte di Comunione e Liberazione, e tutta la famiglia era vicina al movimento.
Cosa ci dice Pesatori nella sua dichiarazione? Che è stata una disgrazia, che non ci sono né vittime né carnefici: un messaggio pericoloso da lasciar passare.
A distanza di mesi, decido di scrivere quello che avevo taciuto allora, principalmente per rispetto del dolore altrui. Oggi scelgo di dissociarmi da questa visione un po’ fatalista e un po’ assolutoria: perché un assassinio non è inevitabile, e comporta delle responsabilità.
Non dal punto di vista penale (il diritto perde di fronte alla morte del colpevole) né dal punto di vista religioso (che personalmente può regalare tutte le assoluzioni che vuole): ma principalmente dal punto di vista civile e umano.
In chiesa, durante il rito funebre, e nella comunità, la linea deresponsabilizzante ha trionfato: ma quaggiù, nel mondo laico, non si dovrebbe essere accondiscendenti verso questa poetica della “disgrazia che capita”: perché io una vittima la vedo, e potrei giurare che non era quella che impugnava il coltello.
Sbaglio? Forse.

Ma se ad impugnare il coltello fosse stato un extracomunitario, anche in quel caso non ci sarebbe stato un carnefice? Se ad impugnare il coltello non fosse stato il marito, ma uno sconosciuto, avremmo avuto un atteggiamento così conciliante verso la tragedia? O esiste una sorta di istinto a concedere attenuanti in un contesto che potrebbe assomigliarci troppo? O, ancora, siamo predisposti alla clemenza quando è il marito ad ammazzare la moglie perché potrebbe comunque essere una conseguenza dell’amore, della vita insieme, della passione, della proprietà matrimoniale?
Non so se ci sono risposte, non so – soprattutto – se ci sono risposte oneste.
Di fatto c’è stato un funerale comune, e ora c’è una tomba comune sulla quale troneggia la foto di una coppia felice e sorridente che si abbraccia.
Eppure io, a dispetto di tutto, vedo una moglie che si è presa sette coltellate mentre era in cucina: e credo di non sbagliare chiamandola vittima, se le parole hanno ancora un significato.
Mai più complici.

Perchè i complici indiretti sono sempre troppi.

(Nemmeno Word riconosce la parola “femminicidio”: e la tinge di rosso come un errore)


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