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Quando anche le foglie si accorgono di dover morire

Da Dedalus642 @ivanomugnaini

ImmagineUn autore giovane, una poesia già dotata di un’impronta, una voce, una fisionomia ben definita. Ne parla in termini molto elogiativi Gavino Angius, in una prefazione che non si limita a spiegare in modo didascalico, ma interagisce, dialoga, crea a sua volta su brani e versi estrapolati ed assaporati.

Buona lettura,  IM

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PREFAZIONE ALESSIO SALVINI

S’incomincia a leggerla, la poesia di Alessio Salvini, e ci si ritrova a studiarla.

Non come lettera scritta e morta. Come si studiano le mosse di un predatore, piuttosto. Imprevedibile se non per la sua prima qualità, quella di essere imprevedibile.

Eviterò di soffermarmi sulla giovanissima età di Salvini, elemento avventizio, che in poesia non conta. Specialmente se, come nel suo caso, la sua poesia viene da molto lontano.

Quanto lontano?

Vi sono possibilità, nel momento aurorale della tradizione novecentesca, che per troppa ricchezza o poca consapevolezza, sono state abbandonate o disperse, con gesto magnifico e un poco incosciente. Possibilità andate disperse o cancellate, naufragate nel diluvio di koinai poetiche succedutesi fino al presente.

Possibilità protonovecentesche, fermenti rimasti a incubare, senza che la poesia successiva abbia potuto o voluto condurli alle loro necessarie conseguenze, saldare i conti con essi.

Di queste possibilità Salvini si fa interprete consapevole e attento, con una pietas che non vuol essere tentativo di restaurazione, o di proposta di canoni alternativi (ne circolano fin troppe, ultimamente). Se il proposito di Salvini è quello di ri-fare, l’accento batte più sul “fare” poetico, che sul prefisso iterativo. Un fare che si spinge oltre il singolo componimento, instaurando un’architettura binaria, solida e avvertibile, pur nell’esiguità di questo laconico canzoniere.

Perciò, se nella poesia di Alessio Salvini si dà un preservare e un rinverdire, questo si verifica per traslazione, non per imitazione o parafrasi, attraverso un dettato originario, fresco quanto è lecito aspettarsi, maturo quanto le severe scelte (metriche, lessicali, d’atmosfera) richiedono. Una lingua poetica che sortisce strani effetti d’inattualità, che sembra appena inventata, alle sue prime prove.

Perciò sarebbe vano, ingeneroso e anche frustrante cercarvi con la lente d’ingrandimento una deriva-Rilke, un’intonazione-Campana, una qualsiasi traccia di citazionismo. Più proficuo sarà leggere soppesare e giudicare quest’opera prima secondo i suoi stessi princìpi, magari facendo tesoro di notazioni teoriche acute e spregiudicate come quelle di Marjorie Perloff, situando la poesia di Alessio Salvini, più che contro o fuori dal moderno (e dal postmoderno), lateralmente a entrambi, in una dialettica di rispecchiamento critico, svincolata da ogni automatismo.

Ci accontenteremo di leggerla come fenomeno, questa poesia, in fondo è ciò che legittimamente chiede, riconoscendola decifrabile per approssimazioni e scarti successivi, mappandola per aree di senso, scandendo le sue cadenze, scoprendo che ne resteranno sempre margini sfuggenti, alonati di unheimlich.

GAVINO ANGIUS



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