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Quando arrivarono i filippini

Da Aoirghe

Ci sono tante storie coagulate nel cuore di questa città. Molte le incontro di mattina, per strada, quando io e la mia faccia da lavoro ci offriamo al sole sbiadito di Londra e arranchiamo fino all’ufficio – per la verità, ultimamente, sfrecciamo in bicicletta. Sono le storie di chi si abbandona il suo letto alle tre, alle quattro, alle cinque, e affronta la giungla urbana per portarsi a casa la giornata: i più fortunati e aglossassoni la chiudono al pub, a giri di cinque pinte e una vomitata sul marciapiede. Quelli meno priviligiati si spaccano la schiena fino a uccidersi e hanno occhi arrossati, bambini a casa, appartamenti minuscoli e viaggiano solo in autobus: di solito cucinano curry, o sono neri, o inglesi della specie chubby – sussidio di Stato, obesità come tratto distintivo e più figli di quanto la loro età permetterebbe. Quando mi sono trasferita qui, credevo che Londra fosse il polmone dell’integrazione: in senso letterale lo è – persone di differenti Paesi e lingue che convivono in uno stesso tessuto urbano senza ammazzarsi -, ma la società ha determinato categorie e ruoli a secondo di quelle stesse differenze culturali. Indiani e pakistani gesticono off licences e hanno colonizzato l’East Side, gli asiatici lavorano in ristoranti e negozi asiatici, ebrei e iraniani si contendono Golders Green e zone limitrofe, gli afroamericani hanno Notting Hill, Brixton, Tottenahm e il sud-ovest e sono fattorini, addetti alle pulizie, buttafuori o spacciatori di droga; gli italiani sono ovunque ma stanno solo con italiani, gli inglesi lavorano in banche, uffici e pub e i polacchi nelle caffetterie o come muratori. Probabilmene davo alla parola integrazione un significato troppo radicale: convivere sì, ma solo nelle proprie caselle, perchè la mappa di Londra è un gioco dell’oca scientificamente organizzato. Anche la compagnia dove lavoro ama le caselle, e sempre in un’ottica di business: per fare numeri ci vogliono numeri, non nomi, non facce, non storie, ma spazi organizzati e, soprattutto, a basso costo. Non mi sono mai trovata a mio agio con conti ed economie, tuttavia l’approccio da pescecane mi è sembrato sempre poco lungimirante: è vero che ridurre le persone a numeri facilia l’aumentare degli zeri, ma questo solo nella contigenza presente – e dopo? e il futuro? la cura e lo sviluppo individuale e professionale del lavoratore non è forse la base di un’azienda sana e, soprattutto, duratura? Bè, i capoccia della mia compagnia sembrano non pensarla così: l’ultima lampante trovata mi è stata comunicata la settimana scorsa, e ho dovuto sorridere e annuire quando invece avrei voluto sputare sulla lavagna luminosa. Il reparto di vendita telefonica, che già qui a Londra è la gavetta degli ultimi arrivati, pagati a ore, pagati poco e obiettivamente sottoposti a un lavoro alienante, è stato arricchito di una nuova unità: un call center filippino, nelle Filippine. Ragazzi e ragazze con diplomi e lauree, tra i diciannove e i ventisei anni, ottimo inglese, pratici di computer, molto motivati e disposti a sgobbare duramente, senza orari e grandi pretese, totale flessibilità: riesco ancora a rivedere gli occhietti del capoccia, sfavillanti di soddisfazione. Le ragioni di una scelta simile sono palesi: prestazioni di qualità a bassissimo costo, totale flessibilità e motivazioni – perchè retribuire di minimo sindacale giovani europei laureati con pretese e ambizioni quando si possono sottopagare ragazzi del sud-est asiatico? Sono egualmente preparati ma molto più affamati di lavoro: non si lamentano, non chiedono, voglio dimostrare di valere. Il perfetto affare. E così la compagnia, almeno nel contesto presente, prospera e gioisce, ed è pure convinta di fare del bene a chi è meno fortunato. Si potrebbe dire che anche questo è un esempio d’integrazione: siamo un’azienda così internazionale da coinvolgere anche un gruppo di fillipini stakanovisti e sottopagati. Evviva. La mappa del gioco dell’oca non è stata alterata: tutti nelle loro caselle, anche chi suda dal sud-est asiatico e chiama questo sfruttamento opportunità.

Scelte di vocabolario nella tirannia di questo secolo: non avere scelta fa dell’unica scelta qualcosa da abbracciare e benedire, e l’oscenità di questo business resta nascosta nell’ombra, acquattata con occhi sanguigni. Ma prima o poi ci salterà alla gola, e allora non potremo più mentire, nemmeno a noi stessi.


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