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Quando avete sistemato la Libia fatemelo sapere, che devo ripulire la soffitta

Creato il 17 febbraio 2015 da Danemblog @danemblog
La strabordante maggioranza degli italiani, in questo momento sta parlando di "Libia". La gente che incontri in giro su Facebook, all'asilo di tua figlia, al supermercato, dal commercialista, in fila al Cup, al lavoro: tutti parlano della situazione libica, e tutti ─ siamo in Italia ─ hanno una soluzione alla crisi. Popolo di commissari tecnici, critici musicali, chef, costituzionalisti, esperti geopolitici, e all'occorrenza quel che altro serve.
Una straordinaria maggioranza di questa strabordante maggioranza, fino all'altro ieri era praticamente indifferente a quello che succedeva in quel luogo che nello stretto giro di due giorni è magicamente diventato "a una passo dalla Sicilia", come se la placca africana avesse avuto un sussulto di spinta e nel giro di 72 ore eccotela che bussa a casa. Non è una novità nemmeno questa.
Quella Libia che è sempre stata lì, è da tempo che è uno stato fallito ─ definizione usata per indicare quei Paesi in cui il governo non riesce più a gestire l'amministrazione sul proprio territorio. Ma questo sembra inutile dirlo. Se non fosse che l'euforia fa da sottolineatura a una certa deviazione del nostro sistema culturale, non sarebbe nemmeno di parlarne.
Chi ha risposto peggio ─ ecco la deviazione del nostro sistema culturale ─ non è la gente comune (quella dei velisti di Paul Cayard), ma coloro che hanno il dovere sociale di informare, di partecipare, di guidare, la nostra comunità. I media, la classe politica, opinionisti, editorialisti, intellettuali, fior di pensatori, tronisti, calciatori, cuochi, cantanti, personaggi pubblici in genere, tutti arrivati sulla "questione Libia" con un istinto che se non si conoscesse il divenire italico di certi argomenti, verrebbe da definire imbarazzante.
Ma noi, in pochi mesi, abbiamo già vissuto Ebola, l'Ucraina, il Califfo, le vignette, il Presidente della Repubblica, e via dicendo, dunque niente imbarazzo o stupore (è roba a cui l'abitudine ci ha vaccinato), al più questa semplice costatazione. E un po' di spavento e disagio, ma giusto un po', poi passa.
Capire quello che sta succedendo in Libia, da mesi, è complicato, chiaro. Per questo non è richiesto alla gente comune ─ che è una brutta definizione, che uso per la secondo volta, ma che purtroppo è buona per rendere l'idea. In realtà, nemmeno alle élite culturali e intellettuali è richiesto, anche perché un approfondimento vero, spesso, valido, è questione settoriale, per quelli che usualmente definiamo esperti. (Per tale ragione, tra l'altro, la storia di quest'ultimo anno di Libia non si può raccontare qui, e francamente è pure difficile da raccontare bene tutta insieme: ci abbiamo provato, in vari passaggi, un pezzetto per volta, nel piccolo, e per chi vuole c'è una tag da seguire).
E allora siamo di nuovo qui, come per Ebola, l'Ucraina, il Califfo, le vignette, il PdR, a ridirci che quello che è richiesto a quelle élite culturali e intellettuali, è ─ almeno ─ di non arrivare subito diretti, spediti, alle conclusioni, alle soluzioni, alla sistemazione: perché poi, dopo, ci troviamo sempre così, a saperla lunga sul risultato, prima ancora di aver letto il testo del problema (e il New York Times ci sfotte come a Dibba). Sarebbe bello, allora, che quelle élite culturali e intellettuali imparassero ad affrontare tutto con un po' meno sicurezza, senza certezze divine, con spirito di critica e ragionevole dubbio, guardando le cose non soltanto da davanti ma di lato, di dietro, da sopra, lasciando perdere luoghi comuni e presupposti, separando fatti e opinioni, e soprattutto distinguendo queste ultime, per rettificarle quando si sbaglia.
Perché altrimenti, è così che si coltiva, istruisce, guida, un popolo ignorante, che da una parte vuole la bomba atomica su Tripoli perché è istericamente preoccupato che il Califfo possa prendersi il suo orto, e dall'altra è irragionevolmente barricato sotto un pacifismo da occupazione liceale. Immobile quanto incolpevole.
(Ma non ci si stupisce più di tanto).
 
 

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