Quando Dostoevskij non sa quello che vuole

Da Marcofre

Spesso si dice che una pianificazione accurata (magari non accurata, ma pianificazione deve essere), è la ricetta vincente per arrivare a chiudere una storia lunga (un romanzo insomma). Ma siccome ogni volta che si stabilisce una regola dopo qualche istante appare l’esempio che la contraddice, ecco appunto l’esempio.

“In sostanza, io stesso non so assolutamente che cosa ho inviato”.

Chi parla in questo modo è Dostoevskij. Il romanzo di cui parla è “L’Idiota”. Comecomecome? Dostoevskij non sa che cosa ha inviato?

Forse non lo sai: ma uno scrittore legge!

In realtà in almeno un’altra lettera egli spiega che quanto ha scritto non lo soddisfa affatto. È ovvio che per molti queste sono questioni di lana caprina: perché lo scrittore russo è un mattone e per dire 1 cosa impiega 6 pagine. Oppure perché quell’opera non è granché, e via discorrendo.
L’aspetto però interessante risiede nelle parole di Dostoevskij. In sostanza, egli afferma che il compito che si è dato è troppo alto. L’idea che lo ha folgorato è di descrivere una natura umana pienamente bella, e qui abbiamo un’interessante lezione che lo scrittore emergente dovrebbe far sua all’istante. Perché Dostoevskij non si è fossilizzato su questa idea, ma ha cercato di capire come altri, prima di lui, l’hanno affrontata. Dimostra di aver letto “Il circolo Pickwick”, e poi “Don Chisciotte”, e pure “I miserabili” di Victor Hugo. Anche in questi l’idea del bello esiste, ma non è quello che lui descrive. Piccola digressione…

O scrittore, trova la tua nicchia!

Se dico Claude Schopp,  ti cadono tutti i denti.
“Carneade! Chi era costui?” (Questa frase la piazzo per alzare il livello del blog, così sembra davvero un blog proprio come si deve). È uno dei più importanti studiosi dell’opera di Alexandre Dumas. Anzi, forse il più importante, colui che lo ha riportato al centro del dibattito culturale francese; sì perché pure per i francesi era troppo popolare! Vendeva troppo! Ah, quegli scrittori che non vendono nemmeno una copia! E che dire di quelli, ancora più meravigliosi, che nemmeno pubblicano?
Claude Schopp rivela che a un certo punto, in gioventù, dopo l’università oppure mentre ancora la frequentava (non ricordo con precisione), si era reso conto che a proposito di Dumas esisteva scarso interesse tra critici, accademici e intellettuali. Bam! Aveva trovato la nicchia!
In realtà era ed è una miniera d’oro, e ci si è tuffato. Adesso, come ho detto poco prima, è riconosciuto per essere il massimo esperto di Dumas. Ha dovuto lavorar duro per diventarlo. Dico solo (lo rivela lui, certo), che Dumas era un tipo generoso, e spesso regalava i capitoli delle sue opere agli amici. Ritrovarli, rimetterli assieme, richiede intuito, fortuna e appunto tanto lavoro.
Torniamo a Dostoevskij.
Lui vuole scrivere un’opera che si discosti da tutto quello che sino a quel momento si è pubblicato. Il “bello” descritto da Hugo, Dickens o Cervantes, affascina perché è ridicolo, oppure fa tenerezza. Lui vuole invece creare qualcosa di ben differente. Non desidera che il protagonista del romanzo commuova perché è simpatico, ridicolo, oppure ha subito un’ingiustizia. E per questa ragione sente di non essere all’altezza di un compito così alto. Eppure non si arrende. Alla fine come sappiamo, il romanzo sarà completato e diventerà uno dei classici di questo scrittore.
Che lezione si può trarre, da tutto questo? Che occorre avere una volontà di ferro? Può darsi, ma prima di questo, bisogna capire anche come gli altri hanno affrontato l’argomento con il quale vogliamo misurarci. Dostoevskij era un genio, certo; non mi posso permettere di misurarmi con lui perché i miei neuroni morirebbero all’istante. La sua lezione però mi pare comunque attuale. Vale a dire: prendi un’idea, e fai in modo di affrontarla in maniera del tutto differente. Che sia originale, non nel senso che diamo a questa parola, sinonimo di nuovo o novità. Ma “originale” nel senso che risale alle origini, alle domande vere e fondamentali.


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