Holmes e Watson (da The Greek Interpreter – illustrazione di Sidney Paget).
Sir Arthur Conan Doyle odiava il suo personaggio più noto, Sherlock Holmes.
Alcuni sostengono che questa antipatia nacque nel momento in cui si accorse che Holmes era diventato decisamente più famoso di lui, ma pare che in realtà il buon Arthur non abbia mai particolarmente amato il geniale detective.
Nel 1927 Doyle confidò ad alcuni amici che non era nelle sue intenzioni creare un ciclo poliziesco così articolato e lungo, essendo più attirato da altri generi narrativi (avventura, fantastico, perfino romanzi a sfondo storico). Generi di cui comunque scrisse diversi libri, ma che passarono in secondo piano rispetto all’enorme successo delle avventure di Holmes.
Doyle provò addirittura a limitarne il proliferare decretando la morte del suo eroe (ne L’ultima avventura), salvo poi fare un passo indietro su pressione dei lettori, al punto di scrivere un’avventura retrodatata (Il mastino dei Baskerville), e poi addirittura “resuscitandolo” dalla morte (L’avventura della casa vuota).
Dunque possiamo sostenere che Arthur Conan Doyle fu schiavo del suo più grande successo letterario?
Senz’altro sì.
Per mia natura non amo particolarmente i personaggi seriali.
I motivi sono essenzialmente due: A) preferisco variare storie e protagonisti, B) la serialità diventa spesso sinonimo di prevedibilità (che fa anche rima).
Ancor più delle saghe, che comunque hanno il difetto di essere piuttosto stancanti, i cicli narrativi seriali cerco di evitarli a meno che non siano davvero particolari. Perfino nei fumetti – che della continuità narrativa fanno un punto di forza – preferisco leggere storie coi soliti personaggi calati in contesti alternativi, originali. Non a caso tra le mie letture supereroistiche preferite ci sono Marvel Zombies e Superman Red Son, Bullet Points: figure note e arcinote, ma reinterpretate in modo geniale, spesso irriverente.
Per quel che concerne i romanzi non seguo più alcun personaggio seriale da qualche anno. L’ultimo è stato il ciclo della Sigma Force di James Rollins, che a parer mio ha rovinato un ottimo autore d’avventura, che ha nei suoi libri autoconclusivi d’esordio (Amazzonia e Artico) i punti di forza. Altri due “serialisti” molto prolifici che non mi dispiacciono sono i signori che vedete in foto. Ogni tanto mi capita di leggere ancora qualche storia del dinamico duo Preston & Child ma, anche in questo caso, la ripetitività ha ammazzato il mio interesse per personaggi pure molto riusciti, su di tutti l’agente Pendergast, usciti dalle penne di questi due ottimi autori.
Douglas Preston e Lincoln Child.
Come scribacchino non amo riproporre personaggi o scenari di cui ritengo chiuso il percorso narrativo. L’esempio più evidente è quello di Uomini e Lupi, uno dei miei romanzi più scaricati, che si presta facilmente a un sequel. Nonostante tali presupposti non sono mai riuscito a trovare il giusto spirito per scriverlo né credo che mai lo farò (come già anticipato in un post di poco tempo fa).
Anche con il Survival Blog è accaduto qualcosa di simile: pur avendo ancora molti spunti da sviluppare non ho lo stimolo per scrivere altre storie “pandemiche”, se non inserendo qualche variante che ne stravolge la struttura più classica (come nel caso del crossover Nazipandemic, che prima o poi leggerete – forse).
Un’eccezione recente sono ovviamente i racconti della micro-saga dedicata a Libby (qui, qui e qui). Il personaggio supereroistico ben si presa a esperimenti di questo genere, in più trattandosi di storie di medio/breve lunghezza non risentono del peso della ripetitività ossessiva. A ogni modo è un esperimento singolare per me, che non mi sta dispiacendo, ma che probabilmente spiazza alcuni lettori.